I n quella che è stata definita “l’epoca delle passioni tristi”, e che ha per massima la passione triste per il denaro, affezionarsi a un giocatore è diventato un esercizio inutile, ozioso, sostanzialmente dannoso. Non che il professor Caudano amasse particolarmente Retegui: lui, da sempre, è tifoso sentimentale la cui predilezione va per calciatori di più originale e meno chiara visibilità, dai Simonini o Valdez di un tempo, al Miranchuk dell’altro ieri. Ciò non di meno, la notizia del passaggio dell’ultimo centravanti nerazzurro al calcio arabo, che giunge in un pomeriggio quasi fresco e dall’aria trasparente, lo disturba. Via Gasperini, via Retegui: via la mente e via il braccio dell’ultimo capolavoro in casa Atalanta. Un centravanti che aveva realizzato sette reti in tutta la stagione precedente, portato a segnarne 28, fra campionato e coppe. “Così, non sapremo mai quanto avrebbe reso sotto Juric…”, bofonchia Elvio. Ma più ancora dell’aspetto tecnico, lo turba quello umano: “Un calciatore avanti in età, può anche far bene ad accasermarsi in un calcio secondario in cambio di vagonate di soldi. Ma un astro nascente, un attaccante che si stava affermando sul palcoscenico europeo, perché mai dovrebbe confinarsi laggiù, dove le nostre grandi partite di coppa e dei singoli campionati sono precluse? Perché dovrebbe privarsi della gioia di giocare su campi come quelli di Anfield, del Bernabéu o di San Siro? Per guadagnare tantissimo? Eppure, già i soldi che ricevono qui bastano per sistemare loro, i loro figli e probabilmente i loro nipoti. Voler arrivare oltre, nel garantire benessere alle generazioni, che senso ha? Compromettere la propria carriera per far vivere come nababbi discendenti di cui neppure si può immaginare il volto e se nasceranno a San Francisco, a Stoccolma, a Tokyo o a Napoli: ha senso?”.