«Bortolotti» non è solo il trofeo. Achille e Cesare nella storia dell’Atalanta, visti da chi non li ha vissuti. Lo scritto di Ombra

storia.

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A nche a costo di diventare patetici, cosa sono soliti ripetere i professori di latino del liceo? “Non è una lingua morta”. Non la si usa più da secoli e pensano di convincere degli sfacciati sbarbatelli con quelle cinque parole? La verità fa male, tuttavia. Se noi parliamo, scriviamo, pensiamo, allora continueremo a preservare e coltivare l’eredità di quel mostro scolastico che è la lingua di Cesare e Cicerone. Purtroppo è vivo e vegeto. Si insinua in ogni angolo del linguaggio, nascondendosi e riemergendo quando meno se lo si aspetta. Illumina scorci e angoli dei quali ci si dimentica spesso e volentieri, più per pigrizia e negligenza che per difficoltà. Absens, aggettivo di seconda classe e participio presente di absum: “assente, lontano”. Solo una lingua diabolica come quella latina riesce a racchiudere in un unico lemma due concetti all’apparenza così simili ma, in realtà, in contraddizione tra loro. Come può una persona, una cosa, un animale o qualsiasi entità possiate immaginare non esserci e, contemporaneamente, trovarsi non nei paraggi? O c’è o non c’è, in teoria. Sarà un mero esercizio di stile, pura retorica fine a se stessa, ma pensare al cognome Bortolotti riporta a una pratica multiforme, ingannevole, amara, che contraddice qualsiasi principio lineare. Quella maledetta pozzanghera di Predore ha rischiato di spalancare un vuoto incolmabile nella storia dell’Atalanta. Un padre anziano fiaccato da un’esistenza faticosa, un figlio minore non così innamorato della Ninfa da prendere le redini dell’azienda di famiglia. Poteva rovinarsi tutto. Lo schianto dell’auto di Cesare Bortolotti è stato un colpo durissimo da digerire: un giovane e ambizioso presidente-manager, tifoso della squadra gestita, che nel giro di un decennio riesce a rinvigorire i germogli piantati a Zingonia ed esporli alla luce delle notti europee.