L’Atalanta e il «metodo moneyball»: trovare giocatori usando (anche) i dati, cioè vincere spendendo meno (1ª parte)

scheda.

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S e fossimo al di là dell’oceano, gli americani definirebbero il racconto delle ultime sei stagioni dell’Atalanta “a cinderella story”, ovvero la metamorfosi di una piccola squadra provinciale che riesce a partecipare e ad imporsi al ballo di gala con le grandi della Serie A e del calcio europeo.

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La “fata madrina” dell’Atalanta, che seguendo la narrazione, con il suo aiuto magico donò a Cenerentola un “nuovo splendido abito” non potrebbe essere che Gian Piero Gasperini. Ma forse non solo lui, perché dietro ai successi dei nerazzurri ha lavorato più o meno dietro le quinte un gruppo di scouting, guidato sino a poco tempo fa da Giovanni Sartori e la cui eredità è stata ora raccolta dalla coppia D’Amico - Congerton. Un lavoro eseguito alla perfezione, che negli anni ha consentito all’Atalanta di incassare laute plusvalenze dalle cessioni di giocatori arrivati per lo più senza suscitare particolari clamori. L’Atalanta si è così costruita la nomea di una squadra la cui “programmazione” non aveva eguali nel panorama del calcio italiano, mentre in quello continentale è stata spesso accostata a realtà quali il Mitdjylland (peraltro affrontato proprio in Champions League qualche stagione fa) ed il Brentford di Andersen, uno dei papà della sabermetrica applicata al calcio. Proprio questa sua capacità di “scovare” o “vedere” il talento dove squadre più attrezzate si sono dimostrate miopi, ha fatto credere a molti che la dirigenza nerazzurra utilizzasse qualche particolare algoritmo (o più di uno) nel comprare “no-name” player in giro per l’Europa. L’accostamento del “modello Atalanta” con il famoso metodo “Moneyball” reso celebre dal film omonimo, è stato il passo successivo, e di questo ci occuperemo in questo e in un prossimo approfondimento.