Caudano sotto la pioggia. Il pensiero va all’Atalanta e a Ilicic. «Gli siamo vicini», dice Gasp. Anche tutti noi, Josip

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P iove distesamente e malinconicamente, su Jesi. Il professor Caudano, per una volta, non è stato prudente. Quando è uscito di casa, intorno alle 16, si è fidato del sole che splendeva, solo qua e là macchiato da nubi chiare, quasi trasparenti. La passeggiata gli è andata un po’ per le lunghe, soprattutto perché a un certo punto ha deciso che poteva andare a trovare i suoi. Era esattamente dentro il camposanto, quando il tempo è d’improvviso peggiorato, e lui si è trovato costretto da un temporale furibondo a indugiare sotto la struttura in cemento dell’ingresso. Non ha ombrello, è a piedi e ignora gli orari di un eventuale autobus (mezzo che, d’altronde, per solito disdegna). Non gli rimane che aspettare. Aspettare significa pensare, almeno per un uomo come il buon Elvio. Ma i pensieri che gli detta il luogo in cui, unico visitatore, è costretto a indugiare, non lo consolano. Neppure il Foscolo lo riscatta. «A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti, o Pindemonte», prova a ripetersi. Solo che non funziona: erano «forti», suo padre e sua madre? Forse. Forse più di lui. O anche certamente. Ma quando sosta davanti alle lapidi con i loro nomi, non se ne sente accendere a «egregie cose». Istintivo, invece, avverte un sentimento se non di vergogna, di imbarazzo. Semplicemente gli pare di aver disatteso tutte le poche speranze che quei due genitori potevano avere concepito per lui. Non gli ha dato nipoti, non ha esiti di carriera da esibire, nulla di memorabile da raccontare. Solo la sua riposta, onesta e scialba esistenza.