Una foto, un racconto. Colantuono, Gasperini e due amici che non si parlano più

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O gni volta che vedo una foto di Stefano Colantuono, io ho un groppo alla gola. Una tristezza che non mi va via per qualche minuto, poi passa. No, non pensate a una faccenda tecnica. O anche. Ma non nel senso che potreste credere. Questa mattina, su un social, e sul mio pc, è comparsa una sua immagine, splendida. Di lui che esulta nella pioggia, con la sua carica, la sua proverbiale camicia bianca, la sua testa liscia e forte. E il meccanismo del dispiacere è scattato, puntuale. Provo a spiegare. Io sono Mario, che già è un nome che i miei non so perché me l’han dato. Il nome più normale del mondo. Lui è Edoardo. Che già suona un po’ diverso. Io sono il figlio della portinaia e del giardiniere. Lui è il figlio dei signori. Io ero mingherlino, non alto e palliduccio, vestito ordinario come il mio nome. Lui alto, atletico, bello, abiti sportivi ma firmati, sempre. Da bambini si giocava insieme. Da bambini le differenze contano e non contano, anche se io avevo ben presto capito, anzi imparato dai miei, che dovevo stare al mio posto. Pian piano, poi, i destini si sono divaricati. Ovvio. Le loro vacanze in giro per il mondo e le nostre a Bellaria. Le sue ragazze bellissime e svariate, la mia Loretta sempre lei, con i suoi capelli neri, il suo viso che si lascia dimenticare, il suo lavoro in fabbrica. Io qui a subentrare a mio padre dopo l’ragioneria, lui a Roma. Mondo dello spettacolo dopo il liceo scientifico e la laurea in “Economia e management per arte, cultura e comunicazione”. Unica passione in comune: l’Atalanta.