Atalanta, un pareggio che vale una vittoria. Il dna nelle scelte iniziali, la voglia di vincerla e il «segnale» dei tifosi

commento.

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V ale una vittoria. Per quell’avvio perentorio, per la capacità di rimontare e volerla vincere, per la testa alta di tutto il secondo tempo. Uno contro uno, a petto in fuori. Che se la Juve era una belva ferita, l’Atalanta era lì, col fucile puntato e il colpo in canna. E’ andata bene a entrambe, alla fine. Ma un pelo di più, forse, alla Juve, che ha trovato il 3-3 con una punizione che l’arbitro, col precedente metro di giudizio, nel primo tempo non avrebbe mai concesso. Ma in fondo a tutto restano quelle prime tre parole: questo pareggio vale una vittoria, perché se Juventus-Atalanta - parole di Gasperini - era un appuntamento buono per «misurarsi», allora la misura ha un esito che potremmo dire definitivo. L’Atalanta può stare a questo livello, altroché. Anche al netto di un’assenza che specie nel primo tempo, nel pieno del furore della Juventus, si è sentita parecchio: il gioco passa dai piedi di Koopmeiners, e quando non c’è tutto rischia di diventare più prevedibile e meno rapido. Considerazioni sulla classifica vanno rimandate, dato che mancano le partite di Milan, Lazio e Inter. Ma cambierà poco a prescindere: 35 punti a fine andata significano tantissimo. Sono, a modo loro, una sentenza. Fine del prologo, ma non fine dei ragionamenti.