L’Atalanta piange Eugenio Perico: calciatore, capitano, allenatore. Ma prima di tutto un educatore

commento. Il ricordo di Roberto Belingheri

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L e prime volte, capitava che in chiesa si sentisse un certo brusìo di sorpresa. Faceva strano vedere due calciatori a Messa. Poi, col tempo, gli habitués della parrocchiale di Colognola non ci fecero più caso. Noi ragazzini li cercavamo con lo sguardo, e quasi sempre erano lì, in un banco quasi sul fondo della chiesa di San Sisto. Eugenio Perico e Roberto Donadoni. La Messa a poche ore dalla partita. Basta questo, probabilmente, per dire tanto di Eugenio Perico. Dell’uomo che era, prima che del calciatore o dell’allenatore o del dirigente di vivaio. Un uomo di valori. Dice Glenn Stromberg: così nel calcio ne ho incontrato uno solo, lui. Uno che non a caso Mino Favini aveva scelto come sua ombra, dentro il «settore». Perché sapeva che con Eugenio, come con Giancarlo Finardi, certi concetti, certi valori, erano al sicuro. E che quei ragazzotti che arrivavano al campo sentendosi campioni prima ancora di cominciare sarebbero stati tirati su come buone persone, prima che come grandi giocatori. Perché poi Perico oltre che allenatore e coltivatore di talenti è stato soprattutto un educatore. Mai tirandosi indietro davanti a un invito, là dove le nostre piccole realtà di provincia gli chiedevano un aiuto, qualche ora del suo tempo, per spiegare come si fa, sul campo, a tenere a bada le ambizioni, il talento, come si fa a combinare i piedi col cervello dei ragazzini. Un sorriso per tutti, un’infinita passione per quel binomio inscindibile: sport ed educazione. O forse, nel cuore di Perico, in un ordine invertito.