N el calcio iper-agonistico degli ultimi anni, il momento immediatamente successivo alla perdita del pallone è diventato il vero campo di battaglia per imporre dominio. È lì, in quei pochi secondi, che si misura l’identità di una squadra: se è passiva o predatoria, se subisce l’inerzia del gioco o la controlla. L’Atalanta di Gian Piero Gasperini ha costruito su quel principio gran parte della sua ascesa. Non solo un sistema tattico, ma una mentalità. Un’identità costruita nel tempo, con metodo e convinzione, attraverso stagioni in cui la pressione alta, la ri-aggressione feroce e il controllo territoriale sono diventati un linguaggio comune. Gasperini ha forgiato una squadra capace di interpretare il calcio in modo verticale ed intenso, trasformando il pressing non solo in uno strumento tecnico, ma in un modo di stare in campo. Questa mentalità ha modellato la percezione della squadra — dentro e fuori Bergamo — fino a farla diventare una realtà temuta e rispettata anche sul palcoscenico europeo. Perché l’Atalanta non si limitava più a difendersi contro le big d’Europa: le affrontava a viso aperto, spesso costringendole a difendersi. Una rivoluzione culturale nata proprio dalla convinzione che ogni pallone perso fosse un’occasione per aggredire, non per indietreggiare. Oggi, con l’inizio della nuova gestione affidata a Ivan Juric, si percepisce una frattura in questo meccanismo che sembrava intoccabile. Il pressing, marchio di fabbrica del ciclo gasperiniano, si è fatto intermittente. La squadra non sembra più reagire con compattezza e sincronia alla perdita del possesso, e quel breve spazio temporale che un tempo era occupato dall’intensità, si trasforma ora in vuoto. Un vuoto che l’avversario sfrutta per uscire pulito, costruire, attaccare. Un vuoto che al momento, racconta di una squadra che pare aver smarrito il suo istinto.