D esolazione di una domenica pomeriggio di prima primavera, che avrebbe forse meritato una passeggiata in cresta alle colline, o in mezzo ai prati che inaugurano la discesa verso la città, ma che il professor Caudano non poteva non dedicare alla partita dell’Atalanta. Vi era arrivato sguarnito di buoni presagi. Da subito, aveva temuto che la sconfitta contro l’Inter potesse aver segnato il momento di un’involontaria resa, la rinuncia alle ambizioni più alte che si fa perdita di senso. Oltretutto, Firenze è per consuetudine sede insidiosa, con il pubblico avvelenato e con i precedenti dolorosi di sconfitte immeritate e guastate dalla conduzione arbitrale, come quando Chiesa crollò sotto gli occhi di un incolpevole Toloi (e la successiva stigmatizzazione del tuffo costò a Gasperini l’inimicizia inestinguibile dei fiorentini) o come quando un millimetrico fuorigioco di Hateboer fu immediatamente sanzionato dall’innalzarsi della bandierina e provocò l’annullamento di un goal di Malinovskyi, già nell’epoca in cui, in realtà, i guardalinee avevano iniziato ad attendere a pronunciarsi, data l’autorevole presenza del Var alle loro spalle. Ciò che più ha amareggiato il buon Elvio, al di là del risultato che ha chiuso per sempre l’esile sogno scudetto e aperto la voragine del rischio di rimonta delle inseguitrici, è stato il modo in cui la squadra ha perso: smarrita dentro un’inerzia velleitaria, incapace di arrivare al tiro, persa in una sorta di svogliatezza poco organizzata, in un’impotenza cui neppure un recupero lungo ore avrebbe potuto porre fine.