Atalanta, sulla panchina del Manchester un simbolo: Solskjaer, il numero 2 diventato leggenda (e fa meglio di Mou)

storia.

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N on si vedeva mai, ma si faceva sentire eccome. Sbucava lì in mezzo all’area apparentemente dimenticato dalla difesa quel tanto che bastava per mettere in porta il pallone: non a caso gli inglesi, che per i soprannomi hanno una passionaccia l’avevano ribattezzato “baby face assassin”. Perché Ole Gunner Solskjaer non è mai stato una prima scelta, è sempre partito da dietro, entrato in corsa, ma una volta dentro non è più uscito o ha comunque lasciato il segno. Come quel 26 maggio 1999 a Barcellona, minuto 93 della finale di Champions tra Manchester United e Bayern con i tedeschi che passano in vantaggio al 6° con Basler e poi sprecano una quantità industriale di reti, roba mai vista. A 10 dalla fine sir Alex (Ferguson, of course) manda in campo l’attaccante norvegese a dar man forte a quella vecchia volpe di Sheringham, entrato un quarto d’ora prima. I bavaresi aspettano solo di ritirare la coppa, ma scoccato il 90° succede l’incredibile: prima Sheringham fa pari, poi con il Bayern in stato di shock gli inglesi si buttano all’attacco e guadagnano un corner. Lo batte (hai visto mai…) Beckham, Sheringam devia in porta di testa ma è Solskjaer a dare il tocco decisivo alla palla, battendo un attonito Kahn.

E’ la rete che riporta la coppa a Manchester dopo 31anni e anche l’immagine simbolo della sua carriera, in campo prima e in panchina poi.