Caudano e il finale di stagione dell’Atalanta, che sembra la sua alunna interrogata (cui non osa dare un voto)

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N iente da fare. Decrepite, indebitate, disadorne nobildonne fanno valere la loro esperienza e il loro cinismo a danno di una giovane e spigliata ragazza del popolo, che pure si è affacciata alla vita di società. Apprezzata, lodata, imitata e corteggiata. Tuttavia, al dunque, un po’ messa ai margini. Quasi respinta. Come le fosse stato detto di stare al suo posto. E che il suo posto non può essere al centro della scena. Così il professor Caudano sente e vede la sua Atalanta il lunedì dopo la fine della stagione. Una stagione lunga e massacrante, sorella siamese dell’altra, che per i nerazzurri era finita il 12 agosto a Lisbona, nella sfida di Champions contro il Paris Sanit Garmain. Il buon Elvio, come tutti i tifosi nerazzurri, aveva sognato la Coppa Italia e il secondo posto in campionato. Ma le anziane nobildonne in disarmo, Juventus e Milan, l’hanno sdegnosamente respinta. «Per la verità», ragiona Caudano camminando verso il «Leonardo da Vinci», «la Juventus è stata agevolata dall’arbitro e dal secondo tempo nostro. E contro il Milan sembravamo come svuotati. Abbiamo cincischiato calcio decente, ma senza furore, senza accelerazioni, senza guizzi. Un’accademica esibizione del giovedì, graziosamente adornata da due rigori, ma per loro. Il Milan si è difeso soltanto. Come a suo tempo l’Inter a San Siro. La nobiltà, più o meno decadente, sta sulla difensiva. E poi fa valere qualcosa di inesplicabile. O di esplicabilissimo: il mestiere, l’esperienza, il blasone, l’influenza sugli arbitri…».