Caudano, l’Atalanta in pausa e quella frase di Sandro Ciotti usata in classe: esempio di un italiano che non c’è più

storia.

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L a prima volta, il professor Caudano l’ha ritenuta un caso. La seconda anche. Dalla terza ha sospettato che potesse non esserlo. Poi, ne ha avuto la certezza, anche se non ne ha le prove. Della prima che non ha più perché ha chiesto di non continuare a insegnarci dopo le tristi vicende di scrutinio, c’è un ragazzino che il lunedì lo aspetta all’uscita. Finiscono alla sesta entrambi. A quell’ora, assurda (il buon Elvio, se fosse ministro, vieterebbe che negli edifici scolastici, brutti come sono, si potesse stare oltre le tredici, cioè oltre la quinta), il liceo si svuota in un attimo. Ma lui, Caudano, ha la lentezza degli uomini corpulenti e un poco macchinosi, sicché è l’ultimo a lasciare la classe e poi l’atrio d’ingresso. E sul portone trova Demetrio. Demetrio gli voleva bene, l’anno scorso. Si vedeva. Aveva capito che quell’omone severo ma non cattivo, quando si irrigidiva, obbediva a un rigore etico antico come il suo abbigliamento. Ma che lo faceva nella convinzione di operare per il loro bene. Lui, Demetrio, non era dei migliori, anzi. Stava sempre fra il cinque e mezzo e il sei e mezzo. Eppure, non recriminava nei casi in cui il voto era basso e non insuperbiva se era un poco più alto: semplicemente, si fidava. Era certo che quanto decretava il suo professore fosse giusto e dovuto a competenza e serietà. E non si sognava di mettere in discussione nulla.