I campi umili/3 Bartkowo, un calcio d’angolo e una ragazza in quella vecchia foto che racconta una vita

storia.

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S tava per dirmi una cosa. È stato evidente. Sfogliava senza voglia non quale dei libri che tengo sulla cassapanca, un po’ per vanto e un po’ perché son sempre buoni per dargli un’occhiata, libri d’arte o di fotografia, e lei ha avuto come un sussulto, ma subito lo ha trattenuto. Così come si è tenuta nella chiostra dei denti la frase che stava per uscirle, vivida, esclamativa. Ne sono certo. Ma ormai la conosco: Eva le sue emozioni le nasconde quasi tutte dentro. E chiederle di parlare, se non vuole, è peggio che dare la testa in un muro. Non serve a nulla e lei si inquieta. D’altra parte, mi aveva avvertito subito. Fu una cena da film, per certi versi, la cena in cui mi spiegò che tipo di donna è, a che tipo di relazione pensava, quali confini, nettissimi, desiderava tracciare. E io, che credevo di essere in una posizione di forza, mi ritrovai a dover stare al gioco, accettare le sue condizioni e darne di mie, anche se mai avrei pensato, o voluto. Era agosto. La città, diciamo città, deserta. Noi due nella pizzeria di fronte all’Esselunga. Io sarei andato altrove, ma lei mi aveva detto subito che non voleva un gran ristorante, che si sarebbe sentita in soggezione e che avrebbe avuto poco tempo. Allora, Sofia aveva quindici anni: non poteva lasciarla sola a lungo.