I campi umili/4 Budapest, un balcone sul contropiede e quei ricordi sui Mondiali del ’54, i carri armati del ’56, il Muro che cade

storia.

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I l punto non è il contropiede che è appena partito. Non lo è per diversi motivi. Perché i rossi mi pare stiano rientrando abbastanza agevolmente e credo che faranno in tempo a presidiare come si deve la loro area di rigore. Perché mancano dieci minuti e conducono 3-0, sicché difficilmente la partita si riaprirebbe davvero, anche dovessero venire trafitti alla fine di questa azione. E poi, perché la partita stessa conta e non conta, almeno ai miei occhi, visto che non so bene né di quale categoria si tratti né di quali squadre. Mi affaccio, certo. Quasi sempre, quando vedo che giocano. Eszter non si lamenta. Anzi. Lei guarda la televisione o sbriga le faccende domestiche, e io mi affaccio. Diciamo che respiro, qui sul balconcino della cucina. Siamo sposati da quarant’anni, non sappiamo più che dirci, tranne le buone frasi della quotidianità che si condivide e in cui ci si sostiene : il balconcino è una via di fuga per me e in fondo anche per lei. D’inverno, mi vesto come dovessi uscire, e lì fermo resisto magari un tempo. Ma ora è primavera e in primavera, se nulla me lo impedisce, le partite le guardo per intero. Il che non toglie che non conosca né categoria né squadre, perché su questo campo se ne alternano di diverse. Sono uno spettatore, io. Niente di più. Nel senso di uno che guarda, e fine. Potrei dire “lo spettatore”. Del resto che volete che mi importino la categoria, i nomi delle squadre, peggio che peggio quelli dei calciatori, che sono evidentemente dei dilettanti di volonterosa mediocrità? Il punto non è il contropiede e non sono loro. No. Il punto è che io sono un ungherese di Budapest nato nel 1940.