Il calcio s’inginocchia ai soldi del Qatar, l’Atalanta si ferma. Vademecum semiserio per sopravvivere alla sosta

storia.

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C i sono città che risplendono col sole. I tramonti sui Fori Imperiali, l’alba a Copacabana, la siesta sulle rive sivigliane del Guadalquivir. Ci sono città che si riempiono di malinconia nei giorni di pioggia, raggiungendo picchi di struggente fascino. I ponti gocciolanti di Praga, l’asfalto umido dei saliscendi di Lisbona, le luci psichedeliche degli incroci di Tokyo. Ci sono città invece che lasciano esterrefatti, ma che si mostrano imperfette grazie alle infinitesime perfezioni che contengono. Sia col bello che col cattivo tempo, manca sempre qualcosa per renderle ideali. Ci sono città che covano al proprio interno contraddizioni inscindibili, i cui enigmi non conoscono soluzioni. Il bene e il male della mente umana è quello di creare associazioni e analogie all’apparenza inspiegabili. Si possono dire cosa senza senso, ma che un senso lo nascondono. Allora l’Atalanta è Venezia, in un piovoso giorno di metà novembre. L’umidità che ti penetra nelle ossa e si aggrappa alle giunture, ringhiando come Palomino sulle caviglie dei centravanti avversari. Ogni angolo e scorcio di vie o palazzi che meriterebbe un album di fotografie, come la gamma di lanci e visioni di Koopmeiners. Il reticolo di canali e ponti dovrebbero preservarla da ondate di turisti, ma la bellezza vince su tutto. Anche sulle fragilità e l’incoscienza. Come la macchina di Gian Piero Gasperini che, dopo sette anni di miglia macinate, chiamerebbe il meccanico di fiducia per una revisione. Ma l’autista non lo sa. Non vuole ammettere di aver sentito quel rumorino quando si aziona il motorino di accensione. “Non è nulla”, dice fra sé e sé. Ragiona ad alta voce, finendo per far preoccupare tutti i passeggeri a bordo.