La tristezza insegue Caudano più del calcio, più dell’Atalanta. E le sue domande sono le stesse di tutti

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F ra sé, lui, il suo medico lo ha sempre chiamato dottor Anchise. Il dottor Anchise. Dalla prima volta in cui sua madre gli aveva detto che era arrivato il nuovo medico. Perché al professor Caudano, dopo un nome di tale suggestione virigiliana e classica, il cognome non poteva assolutamente importare. Fra i due, da subito si è instaurato un rapporto di reciproca, elegante e - verrebbe da dire - antiquata stima. Due uomini d’altri tempi. Il professore, timido, e umbratile nella sua pinguedine; il medico, un medico dedito al suo lavoro e ai pazienti, ma, al contempo, uno di quei medici umanisti sempre più rari, che, nascosti in studio, tiene, dentro un armadietto, un po’ di libri. Perché le rare volte che l’afflusso dei pazienti gli lascia tempo, non gli spiace leggersi un poco di Isocrate (“l’unico che capisco ancora abbastanza bene con il mio greco del liceo”), qualche passo di Tacito (“scrive così bene che è meglio legger lui senza comprendere proprio tutto che capire tutto di Cornelio Nipote o di Cesare”) o gli autori moderni che più ama (Hugo, Manzoni e il suo collega Tobino, “che sta su un altro livello, ma per nulla spregevole”). Le frasi fra virgolette, le ha rivolte a Caudano la prima volta che questi si è recato in ambulatorio, venti anni fa. Vagamente ipocondriaco, detestava la dottoressa precedente, una cinquantenne pallida e dai capelli corvini, nervosa e severa, che, le rare volte in cui lo vedeva, puntualmente gli rimproverava alimentazione e sedentarietà, emettendo una vocetta querula e senza mostrare il minimo garbo.