C’ è un vento inquieto che corre intorno al professor Caudano e al paese tutto. Sera di maggio. Da quasi ventiquattro ore le voci si rincorrono, spifferi peggiori di questo vento. Arrivano nel computer, dalla televisione, sul cellulare, tamtam impietoso da Bergamo, da Roma, da Firenze. Gasperini lascia la città che lo adora, è atteso nella seconda e smottamenti della terza fanno pensare che di lì possa giungere il suo sostituto. “Dio liberi”, mormora il professore, che sa bene come giocava la Fiorentina. Dopo cena fresco. Tutta Murazzano è al rosario che viene recitato in chissà quale cortile. Il povero Elvio non ce la fa. Già, la sua fede è incerta e poco docile ai riti collettivi. Poi, questa è una sera davvero difficile. Portato dalle ventate, a tratti giunge il murmure delle preghiere, intervallato dalla voce gracchiante del parroco al megafono. Il professore pensa che era così anche da ragazzo: se stava male, voleva rimanere solo. Non c’erano lenimenti cattolici o scolastici che tenessero. Né il falò con la chitarra, né la pizzeria di classe. Se era dolore, era dolore.
E lo è, in questa sera.
Seduto su una panchina, con davanti la Langa arruffata di nubi, lambito dalle ombre degli alberi le cui foglie nuove interrompono la luce dei lampioni, Elvio parla quasi con se stesso, come capita agli uomini soli che abbiano tuttavia bisogno di dare ai propri sentimenti la corposità delle parole, e una voce.