N on poteva finire diversamente, non poteva essere un ritorno normale. Del resto quello del Sunderland in Championship doveva essere un rapido passaggio, un anno e poi subito di sopra nel multimilionario calcio della Premier a riempire in ogni ordine lo “Stadium of light”, il Wembley del Nord, 49mila posti. E invece quella rovinosa retrocessione del 2017 è stata solo l’inizio di una discesa agli inferi culminata l’anno dopo con la terza serie, categoria che ha accolto i “Black cats” non per una stagione, ma per quattro. Poi nel 2022 in ritorno tra i cadetti e lo scorso 25 maggio la finale-thrilling in quel di Wembley, roba da stomaci forti, per tacere delle coronarie. Un passo indietro, 8 anni fa al momento della prima retrocessione, Netflix aveva pensato bene di realizzare un docufilm su quello che avrebbe dovuto essere il pronto ritorno in Premier di una squadra sì di seconda fascia, ma con un seguito notevole e una forte base working class. Nemmeno il miglior sceneggiatore poteva però immaginare cosa sarebbe successo: un autentico psicodramma di popolo che va ben oltre il calcio durato la bellezza di tre stagioni. “Sunderland ‘till i die” è diventato così una sorta di capostipite del genere, un’autentica pietra miliare che ha inchiodato davanti al piccolo schermo migliaia di persone, ben oltre gli stretti confini di questa città del Nordest inglese. Un posticino non proprio da consigliare, pura classe operaia, miniere chiuse in epoca thatcheriana (la“light” dello stadio è la lanterna dei minatori, effigiata in un monumento all’esterno), cantieri navali e fabbriche d’auto (Vauxhall) pure: per capirci qui il sì (“leave”) alla Brexit ha incassato uno stratosferico 61%, il dato più alto del Paese. Peccato che dopo nemmeno 10 anni le cose non siano cambiate, anzi forse persino peggiorate.