In Spagna insegna musica
per capire la matematica

Professione: docente universitario e musicista. Formalmente, potremmo chiamarlo direttore, maestro, professore o pedagogo del suono e della melodia, ma forse l’espressione migliore è «esploratore della musica». La ricerca di Marco Lucato è partita negli anni ’70 dalla Malpensata attraverso la direzione corale, e a fronte di prestigiosi studi culminati con un’esperienza nell’est Europa, lo ha trasportato da più di 25 anni in Spagna: dal ‘97 «insegna ad insegnare» musica ai bambini come professore di Pedagogia musicale all’Università di Vigo, con sede nella città di Pontevedra, in quell’estremo ovest della penisola iberica che sorride in faccia all’Oceano Atlantico.

Andando oltre le definizioni tecniche, cos’è la musica per lei?

«È l’essenza dell’essere umano nel fondo. Viviamo di musica. La produciamo continuamente. Il nostro ritmo è il corpo. Tutti i suoni che vibrano intorno si possono trasformare in musica».

Cosa le fa dire «questo è un musicista»?

«Mi lascio guidare sempre dall’istinto e dall’anima. Quando qualcuno fa musica e trasmette un’emozione è un musicista, indipendentemente che il suo messaggio sia positivo o negativo. Altra cosa è quel che viene chiamato artista: è una persona che si dedica alle belle arti a livello professionale e trasmette il messaggio del compositore valorizzando le indicazioni interpretative indicate negli spartiti con una tecnica perfetta, che spesso prescinde dell’interpretazione personale; tanto tecnicismo mi risulta freddo e quadrato».

Ricorda la sua prima scintilla di passione per la melodia?

«Ero all’asilo, mentre si affacciavano gli anni ‘60. Quando si facevano le famose operine ero più interessato a toccare i tasti del pianoforte che alla preparazione delle scenette. La maestra lo disse a mia madre, così cominciai con dei corsi di musica. Ho frequentato il Conservatorio di Bergamo studiando pianoforte, ma quello che realmente mi interessava erano la pedagogia musicale e la direzione corale. Mi sono orientato in quella direzione, ricordo ad esempio dei corsi sul metodo Kodaly con il maestro Roberto Goitre a Piacenza».

Quando ha iniziato a dirigere un coro?

«Ho iniziato molto giovane, evidentemente senza titolo di studio, con un coro parrocchiale alla Malpensata, che però era la famosa Corale polifonica Santa Croce: dal ‘74 all’ ‘83 è stata una delle più conosciute in Bergamo e provincia. Abbiamo fatto tantissimi concerti e rassegne. Ad esempio a Torcello con la duchessa di Kent, oppure a Portofino. Ad inizio anni ‘80, il grande lavoro è stato eseguire per la prima volta in Italia la Messa Creola. Più tardi ci siamo azzardati a fare i Carmina Burana. La partitura completa richiede un’orchestra sinfonica: non avendo sovvenzioni ci siamo arrangiati cercando voci e strumentisti tra cori, studenti del conservatorio, bande musicali, e arrangiando per organo la parte degli archi. Da lì sono poi partito a fare altre cose».

Quale direzione ha intrapreso?

«Mentre insegnavo musica alle scuole medie e dirigevo la Scuola corale Guido Legramanti, vinsi una borsa di studio del governo ungaro, trasferendomi all’Università estiva di Esztergom, frequentando per 4 anni i corsi per specializzarmi nella metodologia. Lì ho avuto contatti con pedagoghi di tutta Europa e mi son convinto che la Spagna fosse un buon terreno per cominciare a lavorare con il metodo Kodaly. Ho fatto il grande salto, aprendo una scuola di musica che ha avuto una certa fortuna a Benavente, nella Castilla e Leon. Poi, casualmente, ho saputo di una cattedra libera di pedagogia musicale all’Università di Salamanca: per curriculum vinsi una nomina provvisoria di 3 anni dopo i quali decisi di cambiare; da vent’anni insegno all’Università di Vigo come professore ordinario».

Chi era Zoltán Kodály e cosa distingue il suo metodo?

«Era un musicista e pedagogo ungaro. Durante i primi decenni del ‘900 con il compositore Béla Bartók girovagò per frazioni e paesini raccogliendo migliaia di canzoni della tradizione popolare ungara, tramandate oralmente dagli anziani: lì c’è l’anima del popolo e lì nasce la musica. Con le più interessanti, creò un metodo per insegnare canto ai bambini. Non si usa il pentagramma. I bambini prima imparano la musica e solo poi la leggono; del resto, noi prima impariamo a parlare e solo poi a leggere. È curioso. Nel metodo tradizionale si impara a memoria, per abitudine. Il metodo Kodály serve a interiorizzare la musica. I suoni, gli intervalli e le scale entrano a far parte della persona. Le vedi e le senti prima di cantarle.

Quali corsi svolge in Università?

«In didattica dell’espressione musicale insegno ai maestri ad insegnare musica ai bambini senza note né valori convenzionali: tutto è basato sulle emozioni e sensazioni create dal senso tonale. Gli intervalli musicali sono memorizzati usando canzoni e non sterili esercizi di memorizzazione. La musica diventa principalmente un mezzo per fare altre cose, come ad esempio insegnare la matematica o interpretare la pittura. In questo modo si impara ad educare il bambino al suono. Poi ci sono formazione vocale e uditiva, formazione strumentale, varie ore di consulenza agli alunni e le tesi musicali da dirigere. In questi anni ho anche diretto due cori giovanili con fini pedagogici, siamo venuti a Bergamo a giugno 2011, per uno scambio con il coro “gli Armonici” di Colognola».

Che posto occupa la musica nel sistema educativo?

«In Spagna i piani di studio si sono molto ridotti rispetto a 20 anni fa. La crisi economica e il cambio politico hanno relegato l’educazione musicale a un livello basso. In Italia non so, ma dovremmo essere agli stessi livelli. Ormai i criteri didattici sono dettati dall’Ue. In questa ruota l’arte è in secondo piano: i fondi per la cultura sono pochi e i prezzi di accesso aumentati. Si salvano tante belle realtà a livello locale».

Quale esperienza le ha creato meraviglia e sconcerto?

«L’esperienza più interessante è quella dei cori con i bambini delle favelas brasiliane nell’ Università di Campinas. I professori si occupano di andare a prenderli di notte sulle strade e portarli in Università per tenerli impegnati: si inizia a cantare alle undici di sera, a volte a mezzanotte con 3 o 4 gruppi corali. Qualsiasi cosa gli dai, te la ritornano con gli interessi. È un posto magico, ci torno ogni estate».

Se le offrissero una cattedra da queste parti, tornerebbe indietro?

«Faccio il lavoro che sognavo di fare nel posto che avrei voluto scegliere. Mi sono sempre piaciuti il mare e la solitudine. Pur mantenendo un legame affettivo con l’Italia, la Spagna è un ambiente esotico vicino. Vivo con mia moglie in una frazione di Villagarcìa de Arousa (Pontevedra). Dalla finestra vediamo l’Oceano Atlantico. Sono innamorato di questo posto: è in mezzo alla natura, lontano dallo stressante rumore di città. Qui ho trovato il giusto ritmo di vita. A Bergamo torno a fine estate e a Natale per vedere familiari, amici e magari organizzare una rimpatriata con i miei “vecchi” coristi del coro Santa Croce. Guardando avanti, il mio grande progetto è vivere in Sudamerica. Quando andrò in pensione, se mi sarà possibile, vorrei andare in Brasile: amo la natura e gli animali, le persone serene e la vita tranquilla».

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