Vendere e comprare: benvenuti a Pechino

Bicocchi: andare all’estero non impoverisce il territorio, i fondi per le imprese ci sono ma non si usano Lombardini: il mercato cinese è una leva di marketing. Miro Radici: competenze giuste al posto giusto

È ora di fare le valigie e andare a Pechino per produrre, vendere e anche per comprare. È il messaggio dell’affollato convegno di ieri alla Borsa Merci su «La sfida cinese», organizzato dalla Compagnia delle Opere di Bergamo.

Il dibattito, coordinato dal presidente della Cdo bergamasca Rossano Breno, ha offerto valutazioni di fondo ed esempi concreti. «Globalizzazione non vuol dire impoverimento del territorio», dice il vicepresidente della Compagnia delle Opere Sandro Bicocchi. Citando un’indagine del Sole 24 Ore, Bicocchi spiega che il 53% delle aziende che si aprono al mercato internazionale lo fanno per incrementare le attività locali e il 34% per trovare nuovi fornitori. Solo il 6% ha chiuso attività sul territorio.

L’obiettivo, spiega Bicocchi, deve essere portare all’estero il modello di piccola impresa diffusa e organizzata per distretti e consorzi: «In Cina ci dicono che è ciò di cui hanno bisogno». Parlando degli aspetti finanziari, dichiara: «Non è vero che i soldi non ci sono». E porta l’esempio dei 260 milioni stanziati per il 2004 dal governo per joint-venture all’estero: «In Lombardia sono state realizzate solo 18 operazioni per 10-12 milioni che non hanno coinvolto i piccoli».

Al convegno, aperto dal saluto del sindaco Roberto Bruni, che da penalista ha ricordato come la datata disciplina italiana sulla contraffazione sia una «risposta repressiva timida e inadeguata», hanno parlato Tito Lombardini e Miro Radici. Il presidente di Lombardini Holding ha sottolineato che «la Cina è una leva di marketing straordinaria che piomba nelle nostre aziende». Al tramonto delle offerte tre-per-due, che non sono più efficaci come una volta, e in tempi in cui il consumatore cambia il suo rapporto con i prodotti ma risponde sempre alla legge «qualità migliore al prezzo più basso», il mercato cinese diventa un fornitore che non si può trascurare. Lombardini anticipa il dibattito ponendosi subito il problema: comprare in Cina vuol dire sostituire produzioni locali con importazioni? «Ma se non vado io a comprare in Cina - dice Lombardini -, lo fa il mio concorrente. Se non affrontiamo il mercato, siamo fuori».

Diversa l’esperienza di Miro Radici, amministratore delegato di Itema Group, che in Cina è andato per produrre telai. Si tratta di accettare la sfida, dice, sapendo che «partiamo da uno o due a zero» perché «in Italia è più difficile reggere. Però siamo partiti, per trasformare una minaccia in opportunità». Per Radici non si deve parlare di delocalizzazione ma di localizzazione, ovvero della possibilità di «creare le condizioni perché il nostro territorio sia il migliore per la localizzazione di certe competenze». Si tratta di «mettere le competenze giuste al posto giusto». E all’obiezione sui posti di lavoro, Radici risponde: «Salvare l’occupazione per me è un problema. Abbiamo aperto un fronte nuovo, non ne abbiamo chiuso altri. La mia strategia non è smantellare l’Itema italiana. Ma so che un’impresa come la nostra non può reggere solo in Valle Seriana: deve internazionalizzarsi».

Il dibattito tocca i nodi del fisco, della burocrazia e ancora dei diversi interessi fra produttori e distributori. Ma i margini per far convivere le due anime ci sono e su questi - conclude il convegno - occorre investire. L’importante, sottolinea Guido Galardi, presidente della LegaCoop Lombardia, è che «il nostro Paese esca dal provincialismo». La Cina corre, l’Italia non può restare indietro.

(21/01/2005)

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