Bankitalia nel mirino
ricompatta la politica

Lo si è visto chiaramente ieri durante le sei ore dell’audizione del capo della Vigilanza della Banca d’Italia di fronte alla commissione d’inchiesta: i partiti – tutti – hanno messo Via Nazionale nel mirino, e hanno la precisa intenzione di farne un bersaglio durante l’imminente campagna elettorale. Chiamato a spiegare l’operato dei suoi ispettori nel dissesto delle banche venete – la Popolare di Vicenza e Veneto Banca – il dottor Barbagallo ha ripercorso puntigliosamente tutto il decorso della malattia e le cure somministrate. Ha incolpato del dissesto i manager - definiti autoreferenziali e deboli – ha criticato le loro scelte – irregolari e anomale – ha raccontato dei prestiti facili concessi alla leggera e in condizioni di conflitto di interesse quando, per esempio, i beneficiati erano i consiglieri di amministrazione della stessa banca o i loro familiari. Poi ha rivendicato ai suoi uomini il merito di aver denunciato le anomalie, di aver spulciato le carte senza pietà, e di essere intervenuti per tempo nei limiti consentiti dalla legge anche quando, ha spiegato, i banchieri nascondevano le prove delle malefatte o delle leggerezze.

Un racconto lungo ventisei cartelle zeppe di tecnicismi, anglismi, burocratismi che però nulla hanno potuto quando si è trattato di andare al sodo: ben cinque dipendenti della Banca d’Italia di punto in bianco sono andati a lavorare alle dipendenze delle banche vigilate. Poco è servito definire «inopportuna» la scelta di quei servitori dello Stato trasformatisi in servitori del capitale privato, e ancor meno è stato utile quando il dottor Barbagallo si è inerpicato su uno specchio per dire che il comportamento di taluni ispettori non ha certo influenzato l’atteggiamento ispettivo della Banca. A quel punto i commissari, rappresentanti dei partiti, non hanno retto. Il fuoco alle polveri l’ha dato Daniele Capezzone, ex Forza Italia ora fittiano: «Lei dottore pensa che noi dormiamo». E di seguito, tutti gli altri. Carlo Sibilia ha rivelato che i Cinque Stelle hanno i nomi di altri dirigenti e di loro familiari di Bankitalia transitati nelle banche venete; Giorgia Meloni ha definito «incestuoso» il rapporto di via Nazionale con gli istituti di credito sottoposti alla sua vigilanza. Per non parlare di Gasparri e dell’ex viceministro Zanetti.

È così che la Commissione si è trasformata - nonostante la presidenza di Pierferdinando Casini – in una specie di tribunale o di ring a disposizione dei partiti che non avrebbero voluto la conferma di Ignazio Visco nella carica di governatore per altri sei anni e che ora si sfogano così crocifiggendo il capo della Vigilanza. Al quale – in chiave antirenziana – imputano di aver provato a salvare la Banca Etruria del papà di Maria Elena Boschi facendola incorporare nella più grande Popolare di Vicenza. «È una leggenda metropolitana – è stata la risposta di Barbagallo – noi non abbiamo mai considerato PopVi cenza come una banca aggregante» (tanto è vero, diciamo noi, che è finita a sua volta tra le braccia di Intesa San Paolo che l’ha comprata per un solo euro). Infine, l’atteggiamento del Partito democratico di obbedienza renziana: «Le vostre sono porte girevoli – ha attaccato il presidente del partito Matteo Orfini – si entra ispettori della Banca d’Italia e si finisce dirigenti delle banche da mettere sotto torchio». «Vogliamo la verità, tutta e subito» faceva eco un altro renziano di ferro, Ernesto Carbone. In sostanza, il Pd non arretra di un millimetro dalla linea fissata con la mozione fatta approvare alla Camera nonostante le obiezioni di Gentiloni e l’irritazione di Mattarella. Secondo Renzi Visco non doveva essere confermato, e ora che Palazzo Chigi e Quirinale lo hanno ugualmente rimesso sul trono, alla Banca d’Italia devono sapere che nulla sarà loro perdonato, tantopiù in campagna elettorale: quando qualcuno rinfaccerà al Pd di «aver salvato le banche», Renzi risponderà: noi abbiamo rimediato ai guasti dei banchieri e agli occhi chiusi di Ignazio Visco e dei suoi ispettori.

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