Brittany, una scelta
davvero libera?

«Poter morire con dignità»: con questo motivo la giovane americana Brittany Maynard, affetta da un cancro incurabile al cervello, ha posto fine alla sua vita il 1° novembre come aveva fissato, nonostante si fosse parlato di un possibile rinvio. È morta tra le braccia dei suoi cari. Commozione e rispetto per lei e la sua famiglia, ma il fatto che la sua decisione sia diventata una campagna pubblica a favore del «diritto di morire» – quasi un milione di visualizzazioni il suo video -, ci chiede di poter discutere le argomentazioni usate a favore dell’eutanasia volontaria perché è di questo che si tratta.

Quando si parla di dignità si ha l’impressione che si stia parlando di una cosa ovvia: in quanto esseri umani, tutti abbiamo dignità e la nostra dignità deve essere rispettata in ogni situazione. Che la dignità poi sia un bene assoluto, al di sopra del quale neppure la collettività può nulla, emerge chiaramente dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea: «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata», così pure la nostra Costituzione Italiana ne riconosce l’inviolabilità. Potremmo dire che la dignità è qualcosa che appartiene alla persona umana, al valore che essa ha in sé e che merita rispetto. Chiaro, in linea di principio. Infatti nell’esperienza ciò che è dignitoso per alcuni, per altri non lo è. Le forme concrete con cui la dignità debba essere rispettata possono variare e di molto. Chi sostiene il diritto di morire con dignità sostiene che la vita è fatta di capacità fisiche e relazionali quali la conoscenza, l’autonomia, il piacere, la comunicazione verbale, la progettualità, e nel momento in cui vengono a mancare questi parametri di benessere, la vita perde la sua «qualità» e non è più degna di essere vissuta. Pertanto, dopo un incidente, o dopo un intervento chirurgico, o quando viene diagnosticato un male incurabile, dobbiamo chiederci a quale qualità di vita vado incontro, e, soprattutto, «lo voglio?».

La forza di questo ragionamento sta nell’affermare che in qualsiasi circostanza, anche la più sfavorevole, io resto il signore della mia vita, il capitano della mia anima, pertanto come ho la possibilità di accettare o rifiutare delle cure mediche, ho anche il diritto di poter decidere autonomamente come e quando morire. Cercando di capire meglio questa posizione, la dignità consisterebbe in una condizione di benessere psico-fisico che è dato sostanzialmente dal non dover dipendere dagli altri, neppure dai propri cari. In altre parole sarebbe l’autosufficienza a darci dignità. Ma è vero? Se fosse così, chiunque non in grado di badare a se stesso, come un disabile, un anziano, o un bambino, non condurrebbe una vita dignitosa.

La dignità dovrà basarsi su qualcosa di diverso dalla capacità di fare scelte autonome, altrimenti si rischia di attribuirla soltanto a chi è in grado di ragionare e decidere perché in buona forma fisica. Sentiamo l’esigenza di rispettare non solo l’umanità di chi sta bene, ma soprattutto l’umanità ridotta a pezzi di chi sta male. La dignità non viene dalle qualità che si hanno o dalle capacità che si riescono a mantenere nonostante la malattia, ma dalla relazione che abbiamo con gli altri, dal fatto che ognuno di noi riconosca nell’altro «se stesso». Non essere più amati o considerati, fatti sentire come un peso o un costo, questo rende la vita indegna più del non avere il cibo. Ma è proprio quando la nostra umanità è malata, ferita, indifesa, indegna, che pretende attenzione, rispetto, cura. La dignità consiste nell’affidarsi tutti alla sollecitudine reciproca, nel cercare di tenersi all’altezza di questo compito eminentemente umano che ci è stato affidato.

La vicenda di Brittany è destinata a pesare sull’opinione pubblica, soprattutto sui giovani, e potrebbe pesare anche su future disposizioni legislative perché ha spostato l’ottica del dibattito. Lei era giovane, attraente, appena sposata, molto diversa dalle persone anziane con cui siamo abituati a confrontarci quando si tratta di malattia terminale. C’è un altro fatto da considerare. Se ci fosse il riconoscimento legale del diritto al suicidio assistito si creerebbe anche l’attesa di un comportamento conforme. Chi è malato o disabile potrebbe sentirsi in dovere di concludere la propria vita, anche quando la morte non è desiderata. Non vorremmo che alcuno se ne dovesse andare anzitempo, solo perché una legge dello Stato lo consente. Sarebbe esattamente l’opposto del morire con dignità. Non vorremmo fosse capitato a Brittany: libera di scegliere, ma «costretta» a uccidersi. Ma non era forse questo che si aspettavano da lei?

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