Contratto di governo
Accelerata e cautele

È decisamente più cauto il testo finale del «contratto» di governo tra leghisti e grillini varato ieri dal tavolo dei «tecnici»: non compare più l’uscita dall’euro e nemmeno la richiesta alla Bce di cancellare ben 250 miliardi di debito pubblico italiano, contenuti invece nella bozza precedente che, quando è stata resa nota dall’Huffington Post, ha con ogni probabilità causato la risalita dello spread a quota 150, che non si vedeva ormai da tanto tempo, e ha contemporaneamente affondato la Borsa di Milano mettendo in allarme investitori, risparmiatori e cancellerie europee.

Forse i commissari Ue, ben tre, che l’altroieri hanno lanciato un brusco altolà all’Italia per ricordarci i nostri obblighi e gli impegni sottoscritti, già sapevano qualcosa delle intenzioni dei futuri, possibili partner del governo di Roma, tanto da essersi decisi a parlare nel bel mezzo della trattativa politica di uno Stato sovrano.

Gli eurocrati hanno ottenuto due risultati: il primo, appunto, è che il documento è stato ammorbidito (si parla appena di «revisione dei trattati Ue» e di un ricalcolo contabile del debito: insomma un passo indietro); ma il secondo è che Di Maio e Salvini hanno accelerato nelle trattative. Proprio nel momento di massimo disaccordo, quando l’intesa era data quasi per fallita, i moniti di Bruxelles hanno ricompattato i due leader in una comune protesta contro «l’ingerenza dei burocrati» negli affari di casa nostra. Questo però non vuol dire che le cose si siano messe del tutto in discesa. Il testo definitivo contiene sei punti ancora incerti su cui devono decidere Salvini e Di Maio. Tutto il resto è un ovvio compromesso verbale, qualche giro di parola, un’omissione qua, un accenno là. Non è chiaro per esempio quanto sia stato edulcorato il reddito di cittadinanza mentre la flat tax sembrerebbe aver resistito con due aliquote da introdurre gradualmente; entrano i temi no-vax e no-tav ma c’è anche il pugno duro sull’immigrazione. Dopo il vaglio dei due capi politici, se si formerà il governo sarà il comitato parallelo al Consiglio dei ministri a dirimere le divergenze. Ai tempi della Prima Repubblica un simile organismo si chiamava «direttorio» o anche «cabina di regia», ed è sempre servito ad ingabbiare politicamente il presidente del Consiglio riducendone l’autonomia. Ecco, il presidente del Consiglio: su questo – come sui nomi dei ministri – l’accordo non c’è ancora. O almeno non è stato reso pubblico. Sarà un politico? Pare di sì, visto che l’ipotesi del tecnico «non votato dagli italiani» è stata già scartata col sacrificio dei professori Sapelli e Conte. Ma quale colore avrà il tecnico? Sarà para-grillino o para-leghista? O si farà la staffetta: comincia uno e continua l’altro (una formula che in passato non ha funzionato: in genere chi comincia vuole restare mentre l’altro scalpita alla porta)? Di sicuro sia Salvini che Di Maio vogliono un «esecutore», non un personaggio che faccia di testa sua.

È chiaro che se si trova l’accordo su Palazzo Chigi il governo si fa. E se si fa non troverà in Parlamento un’accoglienza festosa: per esempio, dalle parole che pronunciano è chiarissimo che un successo di Salvini e Di Maio non piacerebbe né a Berlusconi («Sono preoccupato per i risparmi degli italiani, e come me lo sono tutti i leader europei») né a Giorgia Meloni («Spero ancora che Salvini non si imbarchi in questa avventura»). Staranno all’opposizione, è chiaro, come il Pd e la pattuglietta di Leu. Conteranno sul fatto che in Senato – assemblea «trita-governi» – l’esecutivo giallo-verde avrebbe solo sei voti di maggioranza. Che, come è noto, possono volar via in un amen.

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