Cristiani in croce
come 2000 anni fa

È certamente uno dei fenomeni che segnano questo nostro tempo. Un fenomeno dalle dimensioni imprevedibilmente drammatiche, costellato di un’infinità di episodi atroci. Un fenomeno di cui sfuggono sempre più anche le ragioni. Stiamo parlando dei cristiani perseguitati, ai quali va necessariamente il pensiero in una giornata come questa, il Venerdì Santo che ricorda la morte di Gesù. Non ci sono numeri certi, anche se l’associazione Porte Aperte nel 2014 ha censito 1.062 chiese attaccate con 4.344 vittime. Ma più dei numeri è lo stillicidio continuo degli episodi e la loro diffusione geografica a inquietare.

Le cronache delle ultime settimane raccontano del diciassettenne Milad, ucciso in Siria durante l’aggressione ai villaggi sul fiume Kabhur, o del padre gesuita Frans Van der Lugt, assassinato a Homs, nella chiesa dove dava rifugio a cristiani e musulmani. E poi delle vittime dello Stato Islamico in Iraq, i 21 copti decapitati in Libia e, in Pakistan, i 15 cristiani uccisi qualche settimane fa a Lahore durante la Messa. «Sono chiese cristiane. I cristiani sono perseguitati, i nostri fratelli versano il sangue soltanto perché sono cristiani», ha detto il Papa all’indomani di questa ultima strage. E poi ha pregato perché «questa persecuzione contro i cristiani che il mondo cerca di nascondere finisca e ci sia la pace».

La parola persecuzione, usata due volte in poche righe, è parola che mette i brividi. Che richiama tempi che sembravano ormai archiviati. Una parola che fa capire come da una parte ci sia una violenza cieca di cui non si capiscono le ragioni, e dall’altra una vittima inerme destinata solo a subire. All’indomani dell’uccisione dei 21 copti sulla spiaggia libica, sempre Papa Francesco ha reso bene questa drammatica asimmetria tra carnefici e vittime: «Dicevano solamente: “Gesù aiutami”. Sono stati assassinati per il solo fatto di essere cristiani. Il sangue dei nostri fratelli cristiani è una testimonianza che grida. Siano cattolici, ortodossi, copti, luterani non importa: sono cristiani! E il sangue è lo stesso».

La domanda che ognuno di noi si fa è una sola: perché tutto questo? C’è un disegno? E, se c’è, a cosa mira questo disegno? Oggi non siamo più in una situazione da scontro di civiltà come era accaduto dopo la strage delle Twin Towers, quando i cristiani venivano identificati tout court con l’Occidente. Oggi il contesto è molto più confuso e indecifrabile. Le esplosioni di violenza hanno un’imprevedibilità che le rende ancora più inquietanti. Oggi, soprattutto, la violenza si scatena sempre contro popolazioni inermi, che nella stragrande maggioranza dei casi vivono con grande armonia le relazioni quotidiane con chi appartiene ad altre religioni. E non è un caso che questa persecuzione si sia allargata a volte anche a pacifiche moschee, sconvolte anche loro da quell’unico disegno di sangue.

Viene così da pensare che la ragione vera di questa violenza gratuita e folle sia soprattutto l’odio per quella dimensione di pace che è così profondamente radicata nel cuore delle vittime («Dicevano solamente “Gesù aiutami”») e che dà vita ad esperienze positive di convivenza tra appartenenze diverse.

È proprio questo aspetto che fa scattare l’analogia con quel Venerdì Santo di quasi 2000 anni fa. Anche allora la vittima era inerme. Anche allora la vittima testimoniava una dimensione di pace che il potere percepiva come una minaccia. Una pace non politica, non ideologica, ma diventata esperienza vissuta, accettazione dell’altro, pratica di ogni istante. La colpa dei martiri di oggi è solo una: quella di testimoniare la pace, irriducibile ad ogni moda e ad ogni disegno egemonico, di quell’uomo morto in croce sul Golgota

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