Dall’economia global
una scossa per il Sud

Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani propone di raccogliere fondi europei sino a raggiungere una massa critica di 20 miliardi e poi indirizzarli al Sud d’Italia come investimenti. Secondo i suoi calcoli, con un effetto leva si potrebbe arrivare a 200, risorse sufficienti per dare una scossa all’economia del Mezzogiorno. La filosofia di fondo della proposta è più lavoro e meno assistenzialismo. Sino alla crisi del 2008 l’economia dell’Occidente si fondava su tre pilastri: la redistribuzione della ricchezza, il ricorso senza limiti alle casse pubbliche per sostenere l´intervento dello Stato nell’economia, un solidarismo verso le parti storicamente più deboli della società e del territorio.

Con la globalizzazione la crescita non è più automatica, va misurata con la produttività dell’intero sistema. Lo Stato ha accumulato troppo debito. Non solo non può più spendere, adesso deve risparmiare e ridurre le prestazioni del welfare. Ne consegue che per l’assistenzialismo ammantato di solidarietà sociale non c’è più spazio. Contrariamente a quel che si pensa non è una questione di soldi. La proposta Tajani dimostra che ci sarebbero e in ogni caso in passato tutto è mancato tranne che il denaro.

È la fiducia che è venuta meno. Bastino pochi dati riferiti alla recente cronaca. Per dare sollievo all’amministrazione di Roma dal 2009 al 2012 lo Stato italiano si è accollato spese per 580 milioni all’anno. Alla nuova entità di Roma Capitale nello stesso periodo di tempo sono stati trasferiti 885 milioni di euro solo per far funzionare l’amministrazione. Nel 2013 governo e Parlamento hanno versato alla città di Roma altri 485 milioni di euro e in aggiunta si sono accollati debiti per 115 milioni di euro nella gestione commissariale. Un fiume di denaro dei contribuenti per tener in piedi una struttura corrosa al suo interno dalla corruzione e da mafia capitale. Soldi versati da cittadini onesti per tappare i buchi dell’incapacità gestionale. Un dossier della Commissione Europea del 2015 chiarisce i termini del problema: molti studi hanno legato la scarsa produttività di un Paese alla qualità deteriorata delle sue istituzioni.

Il Tfp ( total factor productivity), il fattore che calcola il peso del governo, della burocrazia e della tecnologia sulla produttività in Italia resta sotto lo zero mentre per esempio Austria e Finlandia viaggia ben oltre l´1%. La morale è: gli insufficienti investimenti nelle industrie ad alta tecnologia potrebbero essere una spiegazione del deludente andamento dell’economia.

Tradotto dal politichese-diplomatico di Bruxelles: se si fosse sprecato di meno e si fosse investito di più in sviluppo, non saremmo lì a chiedere l’elemosina dello zero virgola di flessibilità. Lo hanno capito anche negli altri Paesi che in Italia, fatta la tara di una crisi che ha colpito tutti, il verme solitario della mala amministrazione ingrassa più che mai.

Prendiamo la Sicilia. Dal 2000 al 2016 gli occupati dell’industria sono diminuiti del 21,5% a fronte di un dato italiano medio dell´11%. Con una simile situazione sociale logica dice che occorre risparmiare quanto meno per dare un esempio di sobrietà a chi è più esposto alle difficoltà del vivere. Invece appena insediato il presidente dell’Assemblea regionale siciliana dice chiaramente: sono contro il taglio degli stipendi alti, non tutti i lavori sono uguali. La cosa avrebbe anche senso, sennonché si viene a sapere che i dipendenti di palazzo dei Normanni percepiscono in media il doppio degli addetti alla Casa Bianca. Il Sud è fermo sul vecchio modello: inflazione, debito, svalutazione. È ora di dare la sveglia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA