Dov’è l’austerità
se la spesa cresce?

Quantitative easing (Qe): chi l’avrebbe mai detto che un termine così esoterico sarebbe diventato protagonista della maggior parte dei discorsi di strada e catturato i titoli di testa dei quotidiani. E l’espressione «austerity», diventata il nemico numero uno, è l’altra parola chiave di questi giorni, come in un videogame inseguita dalle maschere di Anonymous, che magari parlano con accento greco. Proviamo a mettere ordine fra questi concetti e capire cosa ci riserva il prossimo futuro. Il Qe, così viene spesso chiamato, consiste nell’acquisto di titoli sul mercato da parte delle banche centrali.

Destinatari di tali acquisti sono gli istituti di credito, i quali – grazie alla liquidità ricevuta – possono aumentare i propri prestiti e così agevolare consumi ed investimenti di famiglie – un’iniezione di liquidità ed una riduzione dei tassi di interesse utile a rilanciare la domanda aggregata. Il vero tema è se il Qe sarà efficace nel rilanciare l’economia del vecchio continente. Sono in molti a dubitarne nonostante i primi entusiasmi: quando i tassi di interesse sono già molto bassi, se le imprese non si indebitano è perché non hanno motivo di farlo. Non vedono prospettive attraenti per impegnarsi in investimenti ed assunzioni. È un vecchio proverbio, ma perché il cavallo si abbeveri, non basta l’acqua, bisogna che abbia sete.

Ciò è particolarmente vero in Italia, dove il credito bancario ristagna per due basilari ragioni. Da un lato, quella che abbiamo appena citato: le aspettative di famiglie ed aziende. Dall’altro, il nostro sistema bancario è poco capitalizzato: con le regole attuali, le banche sono limitate nei propri prestiti dalla disponibilità di patrimonio e, questi a sua volta, è zavorrato e conteggiato al ribasso a causa dei prestiti problematici, ampiamente presenti nei bilanci delle nostre banche. Poca domanda di prestiti e poca offerta di credito: la sola eccezione sono i mutui immobiliari – questi sì che le famiglie vorrebbero riceverli ma, appunto, per le ragioni appena citate, le banche non sono in condizione di erogarli.

Può darsi, quindi, che la domanda aggregata non trovi nel Qe un forte stimolo. Accanto alla politica monetaria andrebbe affiancata quella fiscale, cioè minori tasse o maggiore spesa pubblica. È una soluzione che ha dimostrato efficacia fin dalla Grande crisi del ’29 e che in Europa, però, a causa delle regole di Maastricht è venuta mancare. Ecco che compare il nemico, cioè l’austerity e l’insensatezza di regole automatiche, come quella che vincola il deficit pubblico al 3% del Pil. Hanno ragione quegli economisti che sostengono che in Europa sarebbe necessario un rilancio degli investimenti pubblici e un momentaneo abbandono del vincolo di bilancio per i Paesi in recessione. Hanno ragione, ma bisogna ricordare la genesi della regola che fissa il deficit al 3% del Pil. Venne introdotta perché la Germania non era disponibile ad abbandonare il marco, senza la certezza che tutti i Paesi aderenti all’euro fossero costretti a mettere ordine nei propri conti pubblici, primo fra questi l’Italia. E i tedeschi avevano ragione.

Purtroppo, se per l’Europa è sensato affiancare al Qe politiche fiscali espansive, il caso italiano rappresenta un’eccezione, visti i livelli molto elevati del debito pubblico. In tutta franchezza, sostenere che il nostro Paese è stato vittima dell’austerity fa un po’ specie, visto che in tutti questi anni il livello della spesa pubblica è rimasto molto elevato. Non è un più alto deficit pubblico ciò che serve al nostro Paese per uscire dalla crisi. Sono altre le condizioni necessarie per il rilancio dell’Italia.

Prima, la competitività delle imprese italiane deve aumentare: questa è la condizione fondamentale perché il tenore di vita degli italiani torni ad crescere. Seconda, è necessario ridurre la spesa pubblica e questo significa che molti italiani, che vivono di impieghi pubblici inutili, di pensioni ingiustificate e di appalti dello stato inefficienti, dovranno imparare a vivere di attività più produttive. Si tratta di un’ampia riconversione della macchina statale, ma anche dell’industria privata.

Infine, bisogna fare i conti col debito pubblico: i livelli che ha raggiunto sono insostenibili. Sono temi complessi, la cui soluzione richiederà anni e non gioverà alla popolarità di chi avrà il coraggio di affrontarli. Certamente poco si prestano ad essere trattati coi 140 caratteri di Twitter tanto cari al premier ed ai politici italiani.

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