Fallimento Alitalia
Impariamo la lezione

Con la richiesta di ieri da parte del consiglio di amministrazione dell’avvio dell’amministrazione straordinaria, primo passo per il commissariamento, l’Alitalia è entrata in quella che potrebbe essere la fase finale della sua storia. I possibili sbocchi ora sono o la cessioÍne ad un nuovo socio, presumibilmente e auspicabilmente un’altra compagnia aerea, oppure la cessione degli asset per fare fronte ai debiti con i creditori. In quest’ultimo caso si tratterebbe di smembramento della società in uno spezzatino del patrimonio da mettere sul mercato, a iniziare dai velivoli. Si tratta di un triste destino che pare però logica conseguenza degli errori fatti. Ultimo fatale errore è l’esito del referendum fra i 12.500 dipendenti sul piano di ristrutturazione presentato dai soci. Ai lavoratori va riconosciuto il merito di avere saputo dire che quel piano, che prevedeva una ricapitalizzazione per due miliardi di euro e un migliaio di esuberi, altro non era che l’ennesimo piano finanziario per evitare la chiusura, in assenza di un piano industriale.

L’ultimo piano, quello degli emiratini di Etihad, ha mostrato infatti la sua velleitaria inconsistenza con l’incapacità di fare fronte all’attacco commerciale ad Alitalia da parte dei vettori low cost, a iniziare da Ryanair, e il fallito tentativo di riconvertirla in compagnia focalizzata sul medio e lungo raggio. Ma l’impressione è che i dipendenti abbiano votato senza calcolare le conseguenze immediate del loro referendum, o meglio: sono sembrati convinti, come era avvenuto più volte in passato, che qualcuno – a iniziare dal mondo politico e assistenziale – ci avrebbe poi messo una pezza. Non si è calcolato che quell’epoca è finita e che il peso delle scelte ricade sulle spalle di chi le compie, è il tempo di scelte responsabili non di demagogie irresponsabili.

È vero che oggi si pagano scelte politiche errate compiute nel recente passato, ma questo non consola. I nodi che sono giunti oggi al pettine si chiamano: demagogia politica di voler costruire un hub internazionale a Malpensa quando era evidente a tutti che a un’ora di treno da Zurigo e dal Centro Europa non c’era spazio per un altro hub; demagogia politica di chi ha impedito l’acquisto della compagnia da parte di Air France sventolando la bandiera di cavalieri bianchi nazionali fra i quali fra l’altro non compariva alcun socio industriale degno di questo nome. Entrambi questi errori sono imputabili al centrodestra: il primo a Maroni, il secondo a Berlusconi.

L’ultimo fallimento è quello dell’ingresso nella società al 49 per cento di Etihad senza una capacità del governo di valutarne e seguirne il piano industriale, quest’ultimo errore commesso dal centrosinistra di Renzi.

Il comune dominatore di questi tre errori si chiama totale assenza da parte dei governi di attuare politiche industriali. E questa è la prima e più importante lezione che il sistema Paese, come si ama dire oggi, deve imparare dalla vicenda Alitalia. La favola che i mondi industriali e finanziari vanno lasciati liberi di autogovernarsi perché sanno cosa serve per andare avanti abbiamo visto che non solo è falsa, ma crea danni spesso irreparabili. Una politica industriale capace di individuare i settori strategici del Paese e di governarli deve essere in testa ad ogni programma politico degno di questo nome.

L’altro insegnamento è che non si può da una parte condannare l’assistenzialismo e dall’altra sperare che esso poi metta una pezza ad ogni toppa. La demagogia dei populismi può ammaliare, ma solo scelte responsabili potranno salvarci. Le catene di errori tragici, come quelli su Alitalia, almeno siano di monito e insegnamento.

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