Gli spari agli immigrati
L’odio di uomini fragili

Nei fatti di cronaca nera la prima responsabilità è sempre soggettiva, di chi ha commesso il misfatto. Il ventottenne che ieri a Macerata ha sparato in diversi punti della città ferendo sei immigrati (uno gravemente) sarà chiamato a rispondere del crimine di fronte a un Tribunale. Nei Paesi civili funziona così. Ovviamente (e purtroppo) agli spari ha fatto eco il solito profluvio di dichiarazioni di esponenti della politica. Si è distinto per acutezza d’analisi il solito Matteo Salvini, per il quale «violenza chiama violenza: io condanno ogni tipo di aggressione da qualunque parte venga, è evidente però che chi ha permesso un’immigrazione clandestina e fuori controllo che porta violenza in ogni parte d’Italia purtroppo ha commesso qualcosa di incredibile».

Il segretario della Lega giustifica il far west, nella città dove solo alcuni giorni fa è stata uccisa Pamela Mastropietro, 18 anni, omicidio per il quale è stato arrestato un nigeriano. L’eventuale nesso tra i due fatti di cronaca nera non è stato ancora chiarito, ma è proprio la mamma di Pamela a lanciare un appello: «La violenza non può essere la risposta alla tragedia che ci ha colpiti. Ci sono le aule di giustizia per assicurare i responsabili di questo brutale omicidio». Nei Paesi civili funziona così: lo ribadiamo perché in Italia tira una brutta aria, c’è un clima avvelenato, di paura e diffidenza, un disagio da curare, un desiderio di mettere da parte tutte le procedure e le intermediazioni che caratterizzano una democrazia per andare alla soluzione diretta, talvolta perfino personale.

Ma la vendetta e l’odio non hanno mai portato buoni frutti. «Voglio andare al governo per portare sicurezza in Italia» ha detto ancora Salvini. Vedremo. Intanto chi porta responsabilità istituzionali dovrebbe governare le parole, tanto più se ha mire governative. «Le parole sono azioni. Fanno accadere le cose. Chi ne fa un uso improprio ne è assolutamente responsabile. Fino in fondo» ha scritto il drammaturgo britannico Hanif Kureishi. Luca Traini, lo sparatore di Macerata, ha alle spalle una storia difficile. Abbandonato dal padre quando era piccolo e allontanato dalla madre qualche anno fa, ha curato le sue ferite in una vita solitaria. Abita con la nonna e svolge lavori saltuari. Lo racconta così un ex amico, titolare della palestra dove Traini andava a gonfiare i muscoli. Poi l’ingresso gli fu precluso «perché faceva il saluto romano e battute razziste». Sul suo profilo Facebook lo sparatore appare rasato a zero e tatuato con il simbolo di «Terza posizione», gruppo neofascista degli anni ’70-’80. Ha tentato anche la via della politica, candidandosi con la Lega alle comunali in un paese del Maceratese, ma raccogliendo nessun voto.

C’è da chiedersi perché a un uomo dalla biografia così tormentata e fragile, sia stato concesso il porto d’armi per acquistare la pistola con la quale ieri ha seminato il panico a Macerata. Ma c’è anche un’altra evidenza: certi proclami pubblici fanno presa proprio su personalità come quella di Traini, che hanno una vita povera di relazioni e di punti fermi. Ieri quest’uomo solo e rifugiato nell’estremismo che trova nei migranti il nemico, al momento della cattura è sceso dall’auto, si è messo sulle spalle una bandiera italiana, è salito sul Monumento ai Caduti (che è nella zona dove è stato fermato), si è girato verso la piazza e ha fatto il saluto fascista. Ma non c’è niente di eroico in questo nazionalismo malato: è un pericolo dal quale dobbiamo guardarci, che va prosciugato per non generare altre vittime. È ovviamente legittimo discutere sulle modalità della politica immigratoria in Italia, dei suoi limiti e dei suoi punti forza, ma ci sono confini verbali che non vanno superati. E la realtà non può essere alterata dalle ideologie: a Macerata le vittime sono sei migranti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA