Gli uffici (inutili)
nell’Italia che corre

«Si sono rovesciati governi o mutate istituzioni politiche, si è trasformato il diritto privato, ma non si è riusciti a sopprimere qualche ufficio inutile». Così scriveva nel 1918 Cesare Cagli, alto funzionario del ministero dei Lavori pubblici. Il monito non soltanto conserva tutta la sua attualità, ma si attaglia perfettamente alla situazione presente nel nostro Paese, nel quale l’azione di governo è tesa a produrre trasformazioni profonde tanto nel tessuto istituzionale, quanto in campo economico e sociale. Non a caso, Renzi, lo scorso anno, ha indicato nel cambiamento della pubblica amministrazione la «madre» di tutte le riforme da fare.

La scommessa è tanto complessa quanto decisiva per il Paese. Ormai non sfugge più a nessuno che la qualità dei servizi pubblici, la snellezza operativa degli uffici amministrativi, l’efficacia delle prestazioni rese ai cittadini, costituiscono un elemento chiave della competitività in un mondo nel quale risorse finanziarie e persone si spostano velocemente verso i luoghi nei quali i sistemi pubblici funzionano meglio. Solo se si riuscirà a ridare smalto e funzionalità al settore pubblico, il nostro Paese potrà diventare realmente competitivo. In Italia la riforma dell’amministrazione è una sorta di totem con il quale si sono misurati tutti i governi dall’Unità ad oggi. Con risultati quasi mai soddisfacenti.

Al contrario, quanto più forti sono state le aspettative, quanto più radicali sono state le leggi per semplificare, modernizzare, rendere produttiva la macchina amministrativa, tanto più cocenti sono state le delusioni. Lo scarto tra la retorica politica (che ha sempre predicato l’esigenza di un sistema pubblico efficiente) e la qualità media delle amministrazioni è un’eterna fonte di irritazione nei confronti dell’amministrazione e una causa di radicata – anche se non sempre motivata – sfiducia nei riguardi dei pubblici funzionari.

Negli ultimi due/tre decenni le amministrazioni italiane sono cambiate: non riconoscerlo sarebbe fare torto alla realtà. Ma il livello di funzionalità medio è rimasto insoddisfacente. In molti casi è, anzi, peggiorato rispetto alle esigenze crescenti di rapidità, di razionalità delle politiche di intervento, di efficacia delle soluzioni operative. Basta immaginare un aeroporto nel quale, accanto a quelli che camminano sul pavimento, ci sono altri che lo fanno, utilizzando un tapis roulant. Il divario di sostegno metterà i primi sempre in affanno rispetto ai secondi. In un mondo che cammina veloce, il sistema pubblico italiano deve riuscire ad adeguare il suo modo di operare per migliorare la qualità dei servizi che rende alla collettività.

Alla fine degli anni ’70 un grande ministro della Funzione pubblica stimava in 5 anni di lavoro paziente e diuturno il tempo necessario per produrre i primi cambiamenti effettivi. Prima cosa, dunque, non credere (o, peggio, far credere) che si possano ottenere risultati a breve scadenza. In secondo luogo, non cadere nell’idolatria legislativa, poiché le leggi di riforma amministrativa da sole non cambiano nulla. Possono essere, se ben congegnate, il presupposto del cambiamento. Coloro che hanno pensato che fare buone leggi bastasse a migliorare l’amministrazione, sono riusciti solo a farla peggiorare. La vera partita si gioca da oggi, poiché il campo di battaglia non è il Parlamento che ha approvato la riforma, ma le amministrazioni che dovranno applicarla. Qualità dei dirigenti, formazione del personale, capacità di dialogo con i cittadini sono gli elementi principali sui quali far leva. Insieme a ciò, una politica che dia indirizzi chiari, evitando di intervenire nella gestione quotidiana. Non sarà facile, ma è d’obbligo provarci.

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