I 7 grandi a Taormina
e le risposte da trovare

Il vertice del G7 in corso a Taormina sotto presidenza italiana riunisce attorno al tavolo i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Usa, oltre al nostro Paese naturalmente. Sbaglia chi ritiene che questi summit si siano ormai convertiti in una ritualità politico-istituzionale più dispendiosa che produttiva perché è già di per sé importante che i rappresentanti governativi dei più ricchi e potenti inquilini del mondo si incontrino e lo facciano sulla scorta di agende riguardanti le sfide più rilevanti, identificate e portate a fattor comune attraverso una lunga serie di incontri preparatori. Ed è importante perché il processo di maturazione di queste riunioni crea una fitta trama di conoscenze reciproche, di dialogo, di confronto e magari anche di scontro, che se tende inesorabilmente a misurare i rispettivi rapporti di forza, favorisce anche la ricerca di mediazioni e di convergenze.

Ma sbaglia anche chi si aspetta da queste riunioni più di quanto esse possano dare, soprattutto in una fase di complessità come l’attuale; chi si appella a queste riunioni quasi fossero il toccasana dei mali del mondo, in un ruolo di quasi surroga delle responsabilità proprie degli altri membri della Comunità internazionale; e chi non considera i limiti del potere di indirizzo e di decisione di questi protagonisti della scena internazionale rispetto a quello degli attori non statali e non governativi, nazionali e transnazionali, che sempre più sembrano in grado di influire sulla direzione di fondo della dinamica planetaria: sono i signori dei dati (Google, Facebook e Amazon) in competizione per il controllo degli algoritmi, ovvero per la programmazione degli automatismi.

È una premessa doverosa in un anno come questo dove i gravami di una globalizzazione che si pensava di poter pilotare sono usciti dal collo di bottiglia dove erano latenti. È esplosa una grande questione sociale dove il pendolo degli equilibri planetari sta incrementando le sue oscillazioni, dove parlare di «incertezze» e di «disordine» sembra fare sfoggio di un forzato eufemismo e dove si stanno sommando fattori di criticità che investono anche i rapporti interni fra i membri dello stesso G7: dalla divaricazione infra-europea innescata dalla Brexit, alla seria crisi di identità della stessa Unione europea, al vuoto creatosi con l’esclusione della Russia, a una presidenza Trump ancora per tanti versi imprevedibile come sta emergendo dalla sua prima missione all’estero.

È toccato all’Italia, su cui grava una nevralgica debolezza politico-economico-sociale, presiedere il G7 per l’intero 2017, da incrociare costruttivamente con l’altro grande consesso internazionale, il G20, che celebrerà il suo vertice in luglio, ad Amburgo sotto presidenza tedesca. G20 dove la Russia c’è e dove si ritrovano anche quelle altre potenze che, a partire dalla Cina e dall’India, stanno sfidando il sistema delle priorità e dei poteri di rappresentanza a livello planetario.

Questa nostra Italia sta reggendo piuttosto bene alla bisogna: ha saputo darsi uno slogan, «Costruire le basi per una fiducia rinnovata», tanto suggestivo quanto impegnativo e lo sta rendendo ricco di spessore e di capacità di traino politico, sociale ed economico, grazie a un’agenda di cui vale ricordare almeno i titoli, quali «la tutela dei cittadini, la sostenibilità economica, ambientale e sociale, la riduzione delle disuguaglianze, l’innovazione, le competenze e il lavoro nell’era della nuova rivoluzione della produzione». Ha comunque suscitato, e non è poca cosa, un confronto serio all’altezza del ruolo del G7 e delle sfide in essere. E ciò non tanto in chiave di risultati suscettibili di tracciare uno sbocco alle incertezze e al disordine mondiale, quanto di ricerca di risposte capaci di esprimere una direzione di potenziale convergenza nel tempo.

Merita di essere rilevata in tutto ciò la capacità del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni di dare un rilevante quanto discreto impulso personale alla trattazione dei dossier più spinosi attraverso una serie di incontri con i leader che ritrova a Taormina.

Alcuni gli sono ben noti come la cancelliera tedesca Merkel e la premier inglese May. Altri meno, a cominciare dal neo presidente francese Emmanuel Macron, dal quale ha incassato un empatica vicinanza in materia di flussi migratori e dal quale sarà interessante valutare come vorrà collocarsi nel trittico Parigi-Berlino-Roma, che l’uscita di Londra ha reso di rilevanza portante. Col canadese Trudeau, prossimo presidente del G7, si è prodotta una propizia convergenza grazie anche al sostegno assicurato dall’Italia al Ceta (accordo di libero scambio tra Unione europea e Canada). Col giapponese Abe ha condiviso il rigetto della montante onda protezionistica. Con Trump, infine, si è creato un rapporto franco da verificare nel merito. Trump concluderà a Taormina la sua prima missione all’estero: gli si offre l’occasione di rendere costruttivo il suo «America first» sulle grandi sfide globali che rischia di lasciare un vuoto nel sistema internazionale. In tale contesto attenuando gli annunci di marca protezionistica della sua prima ora, acconciandosi a far emergere una linea di equilibrio tra l’esigenza di contrastare le disuguaglianze che stanno crescendo all’interno dei Paesi più prosperi continuando a promuoverne la riduzione di quelle globali. Lo vedremo, così come vedremo se eviterà di pronunciarsi sull’accordo di Parigi in materia ambientale, ora che il 17% delle emissioni globali di gas a effetto serra sono causate dalla inarrestabile deforestazione.

Insomma, le incognite non mancano e il bilancio del Vertice si farà alla fine. Ma intanto possiamo ritenere che l’accuratezza della preparazione politico-diplomatica sia premessa di una gestione del Vertice all’altezza delle attese. E della splendida cornice paesaggistica che Taormina offrirà al mondo.

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