I conti sballati
non solo virus

Visto che ormai la crisi politica c’è, sarebbe bene profittarne per mettere ordine all’economia, perché il capitolo pandemia è «solo» la parte emergenziale di problemi ben più grandi e profondi. Non bastano i miliardi europei, occorre il fai da te. Ci sono dossier aperti e mai chiusi: Alitalia non riesce a pagare gli stipendi, Ilva a che punto è? Per Atlantia, quanti miliardi incasseranno i Benetton con buona pace di Toninelli? Cosa cambia con Stellantis nell’automobile? E la fibra unica? Ma soprattutto ci sono le debolezze strutturali non solo economiche (vedi orrende gestioni nella giustizia e nella scuola). La politica, impegnata a distribuire le colpe sempre a qualcun altro, in questi giorni ad uno solo, dovrebbe occuparsene alla grande, vaccinazioni e Europa assistendoci sul resto.

Il punto è che sul futuro incombe una somma di questioni: quelle nuove introdotte dalla pandemia (non sprecare i miliardi che arriveranno) e quelle vecchie che già c’erano (e qui occorrerebbe una cultura né populista né sovranista). Quando il lockdown di primavera ci diede la dimensione della tragedia, il primo pensiero corse giustamente ad uno dei nostri mali, la burocrazia, e si varò una piccola legge di semplificazione innanzitutto per sbloccare i cantieri. Ebbene, ad oggi non sono ancora uscite le decine di decreti attuativi, non è stato nominato un solo commissario, e l’elenco delle opere da velocizzare è arrivato solo pochi giorni fa. Non si crea lavoro, così.

Quando il grande sconquasso è cominciato, dovevamo ancora recuperare 4 dei 10 punti persi nella crisi del 2008. In 10 mesi siamo caduti da -4 a -13! Per tornare al felice (?) 2008, quanti anni ci vorranno e dove sarà arrivato il resto del mondo con cui competiamo? La ricchezza individuale di ogni italiano a parità di potere di acquisto nel 1995 era 9 punti sopra la media europea, già prima di questa catastrofe era scesa a 10 punti sotto la stessa media (delta: -19 punti). Nel primo semestre 2020, secondo Bankitalia, c’è stata la più drastica caduta dei redditi degli ultimi 20 anni: -8,8 (nella precedente crisi era stata -5,2). Come hanno reagito gli italiani, lo sanno bene commercianti, ristoratori e albergatori: tagliando del 9,8% i consumi. Stiamo parlando di valori medi, dentro i quali c’è il dramma delle diseguaglianze. I redditi bassi non possono reagire risparmiando (unico dato in crescita dal 2,8 al 9,2) e lasciano cadere il tenore di vita sotto quello vitale.

Per scalare queste montagne la ricetta è la crescita, è persino banale dirlo, e in un quadro di finanza pubblica in cui le imposte, quando non sono rinviate, crollano, l’unico modo per reagire è quello di far crescere il numeratore. Ma anche qui: la produttività del lavoro per ora lavorata, dal 1995 al 2019 pre crisi è cresciuto del 7%, contro il 26% dell’eurozona. Un disastro, nell’era dell’innovazione. Nella prima versione del Recovery plan, la risposta pavloviana a questi problemi era stata una smisurata dose di sussidi.

Ora, al netto delle polemiche e della crisi politica, sembra si siano salvati 147 miliardi in conto capitale, ma la quota-bonus è ancora troppo alta e si mette troppo poco sull’innovazione, abbassata di 10 miliardi. E per fortuna che su sanità, sciaguratamente senza Mes, e su cultura (non però sui giovani), l’aspro dibattito politico ha spostato risorse. Sono questi i motivi che spingono gli osservatori neutrali (vedremo l’Europa) ad affermare che il piano non ha un’anima, non si capisce dove va. Manca appunto la politica, che dal 2018 non ha una linea. E non è finita: il debito è ormai al 160% del prodotto ed è coperto dalla Bce con emissioni a costo basso non infinite. Abbiamo un fabbisogno annuo di 250 miliardi e 170 li dà Francoforte. Ma la macchinetta stampasoldi non si ferma: in finanziaria 66 miliardi di deficit aggiuntivo, dopo i 150 del 2020 e altri 100 già stanziati per il prossimo quadriennio. Il quarto decreto ristori (pessima parola da decrescita felice) vale 32 miliardi, anche per rinviare tasse e licenziamenti, che nessuno ha fatto in Occidente (nell’Usa di Trump, 10 milioni di licenziamenti) perché sta accumulandosi una bomba atomica sociale. Forse non basta essere costruttori.

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