I migranti non sono
barbari alle porte

Ne arrivano ancora di immigrati sulle nostre coste? Se ne parla di meno. Forse perché la stagione autunnale rende più difficile la traversata del Mediterraneo. Forse perché ci si abitua.

Ci vuole qualche trovata di Grillo e qualche impennata di Salvini perché si torni a parlarne. Questo mi ha fatto nascere qualche domanda «importante». Una soprattutto: si può tentare qualche confronto fra le «invasioni» (uso il termine che piace a Grillo e a Salvini) di oggi e quelle di un lontano passato, il passato che ha visto la fine dell’impero romano?

So molto bene che gli studiosi evitano confronti simili perché ti dicono: la situazione è troppo, troppo diversa. Vero. Ma le molte differenze non impediscono, mi sembra, qualche piccola somiglianza. Cerco allora di entrare, con molta cautela, nella cantina ammuffita dei miei ricordi scolastici.

Tra le altre cose, ci hanno insegnato che gli imperatori Augusto e Traiano avevano cercato di dare sicurezza ai confini al nord, conquistando la Germania e la Dacia, a est con l’annessione il regno dei Nabatei (attuale Arabia), a sud con le conquiste e il consolidamento nei territori africani. Ma sull’impero hanno iniziato presto a premere i popoli esterni. Scorrerie di predoni avvenivano già poco dopo la metà del secondo secolo, dagli anni 160 in poi.

Nel terzo secolo, fino agli inizi del 300, le invasioni diventano più pesanti e frequenti, anche se conservano, sostanzialmente, il carattere di azioni di saccheggio, più che di occupazione del territorio. Il territorio viene invece occupato nel quinto secolo, quando, di fatto, l’impero di Roma finisce, nel 476, con la conquista di Ravenna, nuova capitale dell’impero, da parte dell’esercito condotto dal barbaro Odoacre e la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore.

Questi i miei ricordi approssimativi di storia antica. Non so se dico bene. Ma mi pare che i barbari che vivevano ai margini dell’impero, proprio perché abbagliati dal suo splendore, l’hanno conquistato. In fondo la floridezza dell’impero romano è stata la causa principale della sua caduta. Questo è forse il tratto che unisce le ondate immigratorie di oggi con le invasioni barbariche di ieri. Oggi gli immigrati vengono prevalentemente dal Sud del mondo poverissimo e devastato dalle guerre, mondo ai margini dell’impero del Nord, Europa nel nostro caso, ricco e attrattivo.

Semmai va detto che le ondate di immigrati moderni è - finora - molto meno devastante delle invasioni del quinto secolo. Queste venivano soprattutto da Nord e da Est e soprattutto via terra: il che rendeva possibile lo spostamento di grandi masse e di eserciti al loro seguito. Cosa che non è possibile agli immigrati moderni che arrivano soprattutto via mare.

Il Mediterraneo, in fondo, è come una porta: lascia passare perché è aperta ma insieme filtra il numero di quelli che passano perché è stretta. Quest’anno sono arrivati in Italia 130.000 immigrati. Sono moltissimi, ma sono arrivati scaglionati lungo dieci mesi. Proviamo a pensare che cosa sarebbe successo se fossero arrivati tutti insieme.

A proposito, poi, del termine «barbaro». Mi sembra che, giustamente, sia una delle ragioni per cui si evita il paragone fra le immigrazioni di oggi e le invasioni di ieri: si vuole evitare di dare dei «barbari» agli immigrati. Ma, per poter usare la parola senza la paura di essere tacciati di razzismo, basta riandare al suo significato originario. «Barbaro è la parola onomatopeica con cui gli antichi greci indicavano gli stranieri (letteralmente i «balbuzienti»), cioè coloro che non parlavano greco, e quindi non condividevano la cultura greca (Wikipedia)».

Di fatto, dunque, la parola indica soprattutto il disagio di chi abita l’impero di fronte alle novità che arrivano dall’esterno. In fondo, i barbari sono tali perché lo sono anche, un poco, gli abitanti dell’impero che non capiscono la loro lingua. Rischiamo qualche scorribanda anacronistica? Ma sì. E allora saranno «barbari» e «balbettanti» gli immigrati che arrivano sulle nostre coste. Ma lo sono anche Grillo e Salvini. Sempre per non fare nomi.

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