I vietcong che minano
la riforma della scuola

Quando il ddl «Buona scuola» è approdato alla Camera, già qualche foglia del carciofo era stata strappata, in particolare quella del «preside-sceriffo», secondo l’espressione usata dalla sinistra Pd e dal sindacato. Ma il Senato si accinge con ben tremila emendamenti a togliere le altre foglie. O si accingeva.

Perché Renzi ha deciso di uscire dalla palude e di rinviare il dibattito a un’assemblea di tutti, una sorta di stati generali dell’istruzione. Il pacchetto «innovazione + assunzione di centomila precari» proposto da Renzi interessa pochissimo alla scuola reale, del resto. Come dimostra l’adesione massiccia agli scioperi.

Numerosi collegi dei docenti hanno votato contro le innovazioni proposte, quale la valutazione – in Francia e in Inghilterra le famiglie scelgono casa vicino alle scuole valutate dallo Stato come migliori –; e se questo comporta la rinuncia all’assunzione dei precari, non è un problema loro, è solo dei precari. Ai sindacati e alle forze politiche di sinistra, interna o esterna al Pd, e alle forze di opposizione neo-populiste l’innovazione riesce indigesta, interessa solo l’assunzione. Ma nello scenario politico aperto dai risultati elettorali, alla sinistra Pd e alle opposizioni preme, in primo luogo, fermare Renzi, a qualsiasi costo. Tutti ardono dal desiderio di rovesciare il suo governo per tornare al quieto tran tran del declino, fatto di coalizioni paralizzate, di trattative estenuanti, di inconcludenza reale.

Ora, se esiste un terreno ideale per la «guerriglia vietcong» questo è il sistema educativo nazionale. Da decenni qui non è la politica a decidere le linee strategiche, le riforme necessarie, le innovazioni possibili. Qui il governo reale è gestito capillarmente da due soggetti: l’amministrazione ministeriale e i sindacati. Il primo soggetto è muto, ma occhiuto: opera attraverso l’impersonalità di leggi, decreti, circolari. Ha costruito un sistema complesso, che ha chiuso ogni singola scuola dietro le inferriate di una prigione burocratica, in cui i movimenti sono controllati al millimetro. L’autonomia prevista dal 1999 non è mai nata. Il sindacato, invece, è molto loquace, ma è strabico: vede solo le esigenze del personale. L’alleanza politica tra amministrazione e sindacati governa il sistema. Un potere a due teste, sostanzialmente conservatore, centrato sulla gestione del personale, i cui interessi sono diventati preminenti rispetto a quelli dei ragazzi, delle famiglie, del territorio.

Chiunque abbia tentato di spezzare questo asse è stato tolto di mezzo: da Berlinguer alla Moratti, per citare due ministri che ci hanno provato. Ma anche quelli successivi, che si sono arresi per non essere sconfitti, non hanno avuto destino migliore. Renzi ha provato a scardinare il blocco di potere che da anni si oppone con successo ad ogni riforma. È riuscito a scalare la prima cerchia di mura, ma ora si trova assediato, all’interno, dall’amministrazione e, dall’esterno, da sindacati e sinistra Pd. Le opposizioni fanno il proprio mestiere, ancorchè senza nessuna idea sulla scuola, se non quella legittima, ma fissa, di abbattere il governo. Renzi ha fatto benissimo a interrompere il gioco e a mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità.

Se la politica si è assunta, da alcuni mesi, le proprie, settori consistenti dei mass media, degli intellettuali, dei docenti si rifiutano di abbandonare la placenta accogliente di una società corporativa, dove nessuno è responsabile e dove, eventualmente, le colpe sono sempre e tutte dei politici. La politica responsabile ha il dovere di fare leggi di riforma, ma non può imporre alle generazioni adulte di non essere egoiste verso i figli-alunni. Senza la riforma intellettuale e morale del Paese, le riforme diventano impossibili. Aveva ragione Gramsci!

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