Il coraggio di affrontare
la vita di ogni giorno

di Francesco Beschi, vescovo di Bergamo
La festa del Santo patrono della Diocesi e della città diventa festa non solo della comunità cristiana, ma dell’intera comunità di donne e uomini che abitano e vivono su questa terra. Desidero allora ringraziare in modo speciale tutte le autorità che hanno accolto il nostro invito e che rappresentano le istituzioni al servizio della pace, della giustizia e della libertà a livello nazionale, regionale e a livello provinciale e cittadino.

La vostra presenza è un segno, diventa per noi occasione di rinnovamento della consapevolezza di come insieme possiamo costruire i beni di cui la nostra società ha bisogno, e diventa anche motivo di preghiera perché il vostro servizio si svolga nella serenità e con quel coraggio che quest’anno diventa la virtù attorno alla quale vogliamo riflettere, attorno alla quale diversi linguaggi e messaggi si dispiegano in questi giorni. Proprio a partire dalla figura del martire Alessandro, che con il suo martirio ci consegna il segno di un coraggio che è quello della fedeltà a Dio, della testimonianza della fede agli uomini, della sequela di Gesù fino alla morte in croce. In questi giorni si unisce a questa figura - attorno alla quale si coagulano non solo la nostra presenza, ma anche i nostri sentimenti -, il ricordo di altri martiri. Proprio ieri abbiamo celebrato nella nostra diocesi la prima celebrazione di un martire - anch’egli col nome di Alessandro -, un sacerdote della nostra diocesi, un sacerdote delle nostre valli: don Sandro Dordi, proclamato Beato proprio a causa del martirio che ha subìto non secoli fa, ma venticinque anni fa in Perù. Accanto a lui, permettete di ricordare - ed è stato fatto in questi giorni, pur attraversati da motivi di particolare dolore per la morte di alcuni nostri sacerdoti -, la figura di don Antonio Seghezzi, altro sacerdote la cui esistenza e la cui morte possiamo mettere sotto il segno della testimonianza suprema. Vorrei unire a questi nostri sacerdoti la figura di padre Jacques, questo anziano sacerdote francese ucciso sull’altare mentre celebrava l’Eucarestia. Quelle parole «questo è il calice del mio sangue» hanno trovato un riscontro proprio in quel momento nel sacrificio della sua vita. E non possiamo dimenticare il numero impressionante di cristiani testimoni della fede fino alla morte in croce.

Al ricordo pensoso, serio, di tutti loro, voglio unire all’inizio di questa riflessione il ricordo delle vittime del devastante terremoto in Centro Italia e di tutte le persone e di tutte le famiglie sopravvissute in condizioni di totale precarietà. Voglio anche ricordare l’impegno solidale dell’intera comunità nazionale, di tante istituzioni, anche le nostre, di tante associazioni. Debbo dire anche l’impegno della nostra diocesi, che non solo aderirà alla Giornata di colletta per il terremoto proclamata per il 18 settembre in occasione del Convegno Eucaristico Nazionale, ma che intende solidarizzare anche immediatamente con le popolazioni colpite con un contributo di 50 mila euro della Caritas diocesana e della Diocesi, un contributo immediato al quale invito a portare anche la vostra generosità, una generosità che si dispiega attraverso anche molte iniziative promosse da istituzioni e associazioni. Abbiamo assistito in queste ore a gesti di coraggio generoso da parte di molti, anche bergamaschi, che hanno rischiato, esponendo se stessi per salvare piccoli e deboli.

È proprio allora la considerazione del coraggio come virtù, che vogliamo approfondire in occasione della festa di quest’anno: non quindi il gesto isolato, ma piuttosto uno stile, un modo di vivere e di essere ogni giorno. Il coraggio cioè nella vita quotidiana e della vita quotidiana. E una domanda si affaccia immediatamente alla nostra riflessione: a che titolo, per qual particolare competenza o esperienza una comunità di cristiani può parlare di coraggio, quale contributo può offrire all’esercizio di questa virtù?

Dobbiamo riconoscere che ancor prima che di coraggio, noi siamo esperti di paura, conosciamo tutte le paure, le nostre e anche quelle di tante sorelle e fratelli che si affacciano alla comunità cristiana portando le loro paure. Siamo esperti di debolezza, le nostre e quelle degli altri, di fragilità, e anche di viltà, di tradimenti, di pigrizie, non possiamo nasconderci che forse ancor prima che di coraggio siamo esperti di tutto questo. Un vescovo francese, all’indomani del tragico episodio che ricordavo, scriveva «Dio sa che tra noi, nelle nostre società, tra i popoli ci sono tante ferite, violenze, ingiustizie crudeli che ci mettono alla prova, ma dobbiamo mostrare con le nostre azioni, le nostre parole, malgrado le nostre debolezze, le nostre miserie, i nostri smarrimenti che la misericordia di Dio vincerà». E allora il primo contributo della comunità cristiana a questa considerazione pensosa sul coraggio è rappresentato dal coraggio della misericordia.

In questo Anno della Misericordia siamo chiamati ad esercitarci nel coraggio della misericordia anche a fronte del rischio dell’incomprensione, dell’ostilità, della condanna e del disprezzo. Si tratta di un amore a fondo perduto, un amore che coraggiosamente si inoltra nel territorio della miseria e del male. «Misericordia è l’amore anche quando non c’è più il bello» diceva il Papa ai giovani a Cracovia e, aggiungeva, «conoscendo la passione che voi mettete nella missione oso ripetere: la misericordia ha sempre il volto giovane, perché un cuore misericordioso ha il coraggio di lasciare le comodità. Un cuore misericordioso sa andare incontro agli altri, riesce ad abbracciare tutti. Un cuore misericordioso sa essere un rifugio per chi non ha mai avuto una casa o l’ha perduta, sa creare un ambiente di casa e di famiglia per chi ha dovuto emigrare, è capace di tenerezza e di compassione. Un cuore misericordioso sa condividere il pane con chi ha fame. Un cuore misericordioso si apre per ricevere il profugo e il migrante. Dire misericordia insieme a voi, è dire opportunità, è dire domani, è dire impegno, è dire fiducia, è dire apertura, ospitalità, compassione, è dire sogni». Il coraggio della misericordia è il coraggio di Dio, perché se noi possiamo dire una parola sul coraggio, dobbiamo parlare del coraggio di Dio. È questo coraggio, il coraggio di Dio, che noi cristiani siamo chiamati ad annunciare, a testimoniare: si tratta del coraggio dell’amore, di un amore rischioso, di un amore che si affida. Il coraggio di Dio è quello di affidare se stesso all’uomo. Nella creazione, Dio non affida all’uomo soltanto il Creato, ma affida l’uomo ad un altro uomo, addirittura affida Lui stesso alla libertà della sua creatura. Il coraggio di Dio è di fidarsi dell’uomo, di affidarsi all’uomo fino al gesto supremo della consegna del suo Figlio e dell’abbandono del Figlio nelle mani dei peccatori.

Il coraggio del cristiano nasce e diventa questo: il coraggio di fidarsi e di affidarsi a Dio e agli altri uomini, tanto difficile oggi. Uno sospettoso dell’altro, uno concorrente dell’altro. È il coraggio dell’amore, il coraggio della fede. È il coraggio di padri e madri, il coraggio dei figli, è il coraggio dei fratelli, è il coraggio di una comunità civile, è il coraggio della fede, di una fede che si traduce concretamente in amore. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma è dilatazione della vita: essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore e assicura che questo amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio più forte di ogni nostra fragilità.

Il coraggio dunque è quella forza della fede che si esprime in una virtù che ci permette di tener viva la speranza contro tutte le smentite e le intimidazioni contrapposte alla libertà, dalla difficoltà della vita e dalle potenze di questo mondo.

Permettete di evocare quel grandioso dialogo fra il cardinal Federigo e don Abbondio. Pensava don Abbondio: «Questi santi son curiosi, in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore l’amore di due giovani che la vita di un povero sacerdote» (...) «Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno, non se lo può dare». E il cardinale: «E perché, dunque, potrei dirvi, voi, don Abbondio, vi siete impegnato in un ministero che vi impone di stare in guerra con le passioni del mondo? Credete voi che tutti quei milioni di martiri (si parlava allora di milioni di martiri, pensando ai primi, ma oggi sono molti di più ) avessero naturalmente coraggio, che non facessero naturalmente nessun conto della vita? Tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi, avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio, perché il coraggio era necessario ed essi confidavano». La forza è questa, essi confidavano.La fede non è un alibi al coraggio, la fede è ragione, è la sostanza del coraggio di Dio, del coraggio che noi vogliamo testimoniare.

Permettete ancora qualche cenno indicandovi tre esercizi di coraggio che partono da queste considerazioni. Il primo esercizio è il coraggio appunto della vita quotidiana, e l’ho fatto immediatamente dopo la morte di padre Jacques con i giovani a Cracovia. Era una mattina, ci siamo incontrati - erano 1.500 i giovani bergamaschi - e stando con loro ho visto un mio amico che, gentilissimo, mi ha subito mandato l’ultimo articolo scritto da p adre Jacques sul bollettino parrocchiale. Me l’ha mandato in italiano e io l’ho subito condiviso con i giovani. È proprio la rappresentazione di quel di cui abbiamo parlato fin qui. Lui muore, così, martire, ma qui ci narra del coraggio quotidiano. Sentite: «La primavera è stata piuttosto fresca, se il nostro morale ne ha risentito, pazienza, l’estate sta per arrivare. È anche il tempo delle vacanze, le vacanze sono un momento per prendere la distanza dalle nostre occupazioni abituali, ma non sono una semplice parentesi». E qui lancia il suo messaggio: «Apriamo il cuore alle cose belle». Il coraggio, questo è il coraggio quotidiano. «Che sia possibile sentire in questi momenti l’invito di Dio a prenderci cura di questo mondo, a farne là dove abitiamo un mondo più caloroso, umano, fraterno, un tempo per l’incontro con le persone a noi vicine, con gli amici, un momento per prenderci il tempo di vivere qualcosa insieme, un momento per essere attenti gli uni gli altri, chiunque siano. Un tempo per la condivisione, condivisione della nostra amicizia, della nostra gioia, del nostro sostegno ai bambini, mostrando a loro che per noi contano. Anche un momento per pregare, attenti a ciò che succede nel mondo in ogni momento». La vita quotidiana. Il coraggio di aprire il cuore alle cose belle ogni giorno.

Il secondo esercizio è il coraggio di privilegiare la costruzione della comunità, più che l’affermazione di una assoluta autonomia individuale. Il coraggio vero non nasce dalla considerazione delle proprie forze, ma dalla fiducia. Fiducia nel prossimo, nella figura umana del mondo, nel carattere di casa che ha luogo in cui viviamo. Il coraggio di affrontare le minacce e le paure. Questo coraggio ci viene dall’essere insieme, dal costruire comunità, dal regalo di farci prossimi alimentando la fiducia. Se guardiamo bene, la paura è sempre legata alla solitudine, come succede nella notte che crea mostri. La temerarietà è quella che si fida solo di sé: «Solo Dio può liberarmi dalla paura radicale e darmi radicalmente coraggio. Non temete quelli che uccidono il corpo: non hanno il potere di uccidere l’anima».

E infine, il terzo esercizio, è il coraggio della preghiera. Sì. Come preghiamo? Preghiamo per abitudine, pietosamente... Ma ci mettiamo coraggio, davanti al Signore, quando preghiamo, per chiedere quello per il quale preghiamo? L’atteggiamento è importante, perché una preghiera che non sia coraggiosa non è una vera preghiera. Quando si prega, ci vuole il coraggio di aver fiducia che il Signore ti ascolta, il coraggio di bussare alla porta. Il Signore lo dice: «Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto».

E allora permettete di concludere con una preghiera che tante volte la comunità ripete in tanti momenti della vita e della storia. È la preghiera del salmo del Pastore, e a un certo punto colui che prega dice: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché Tu sei con me».

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