Il patto di ferro
schiaccia i cespugli

In una riunione poco più che rituale, la Direzione del Partito democratico ha accolto la richiesta del suo segretario Matteo Renzi di sostenere in Parlamento una riforma elettorale basata sul sistema proporzionale con la soglia di sbarramento al cinque per cento (il cosiddetto modello «tedesco»). La striminzita opposizione interna di Andrea Orlando e Michele Emiliano ha sollevato dubbi ma non ha fatto le barricate, anche se forse al Senato qualche difficoltà in più i parlamentari di minoranza proveranno a crearla. Ma la loro fronda non produrrà alcun effetto apprezzabile, dal momento che, una volta stretto l’accordo, il testo di legge sarà votato dal Pd, da Forza Italia, dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle, quasi il 90 per cento del Parlamento. «Come dire di no?» ha chiesto Renzi, con interrogativo retorico, alla sua Direzione. «Non è certo la legge che preferiamo, ma dà stabilità al Parlamento e produce anche una certa pacificazione tra i gruppi».

Chi resterà fuori dell’accordo dovrà acconciarsi, a cominciare dai centristi di Angelino Alfano, gli alleati di governo malamente scaricati da Renzi per correre di nuovo all’abbraccio con Berlusconi. I vari cespugli parlamentari, sorti numerosi in questi quattro anni di legislatura, sono – secondo i sondaggi – tutti al di sotto della soglia di sbarramento al 5% («soglia inamovibile», l’ha definita Renzi tanto per esser chiaro) e la loro salvezza dipenderà solo dalla capacità di unirsi e, insieme, di provare a saltare l’ostacolo. Lo dovranno fare i centristi (Alfano, Casini, Cesa, Verdini, Quagliariello, Fitto, Zanetti, ecc.) ma anche le sinistre che parlano tanto di costruire «un campo largo» del progressismo nostrano ma non hanno la più pallida idea di quanto possa essere davvero «largo» quel «campo» a sinistra del Pd e soprattutto se sarà possibile delimitarlo davvero. È una domanda che si pongono gli ex Rifondazione di Sinistra Italiana, i Comunisti Italiani, gli scissionisti di Bersani e D’Alema fino ai microgruppuscoli alla Pippo Civati e quanti credono alle promesse ancora non verificate dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia.

È molto probabile che con la legge «tedesca» (vogliamo chiamarlo «Germanicum»?) che si approverà in via definitiva ai primi di luglio rimarranno in piedi solo quattro-cinque partiti, e tra loro si deciderà il governo dopo che si sarà andati a votare. Ma quando si voterà? «Anche alla fine di settembre», si è lasciato sfuggire ieri Renato Brunetta o, più probabilmente ai primi di ottobre. Poi, se il voto sarà andato in un certo modo, un governo di «larghe intese» tra Pd e Forza Italia proverà a sbarrare il passo ai Cinque Stelle. Se invece le attese di Renzi dovessero andare deluse, è molto probabile che si costituisca un governo grillino magari sostenuto dalla Lega in nome del comune anti-europeismo (si fa già il nome dell’ex magistrato di Mani Pulite Pier Camillo Davigo come possibile premier).

In tutta questa precipitosa operazione-voto non sono chiare le conseguenze sul piano economico-finanziario: dalla tenuta dei conti pubblici alle incombenze che in autunno i governi devono affrontare con Bruxelles per approvare la legge di stabilità. I soggetti economici sono tutti contrari a questa corsa alle urne, e la Borsa ha fatto sentire il suo brontolio: il loro timore è che non si vada verso una stagione di stabilità ma al contrario, di prolungata incertezza che potrebbe esporre l’Italia ad un nuovo assalto speculativo.

Bisognerà capire come il capo dello Stato, cui spetta il potere di sciogliere le Camere, valuterà questi rischi una volta che il Parlamento gli consegnerà la nuova legge elettorale.

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