Il sorriso di Anna Frank
più forte dell’idiozia

Sui campi di calcio questa sera prima delle partite verrà letto un brano del Diario di Anna Frank. La Lazio, che ha visto i suoi tifosi pensare e compiere quel gesto sconcertante domenica all’Olimpico, indosserà nella fase di riscaldamento per la partita con il Bologna una maglia con il volto della ragazza ebrea. Il mondo del calcio per una volta ha reagito con prontezza all’idiozia di quel manipolo di esagitati che pensavano di insultare i nemici romanisti mettendo la maglia giallorossa sulla fotografia di Anna. A questo punto ci si potrebbe chiedere com’è possibile che nelle menti di un gruppo di persone possano generarsi idee così volgari e grottesche: ma forse è una ricerca inutile. Iniziative come queste sono figlie di un «non pensiero», di cervelli risucchiati dal nulla. Meglio lasciare che pragmaticamente sia la giustizia ad agire, perché solo gli schiaffoni della giustizia possono (forse) rimettere in sesto quei cervelli.

Piuttosto oggi, a distanza di due giorni, c’è un altro aspetto che prevale: in tutto quanto abbiamo visto, quello che ci resta negli occhi è una cosa sola, quel sorriso di Anna Frank. Un sorriso spalancato, semplice, indimenticabile. Guardandolo ci si chiede quale sole avesse nel cuore quella ragazzina per guardare la vita (e oggi noi) in quel modo. Anna aveva una vera passione per le fotografie. Sappiamo che nel nascondiglio di Amsterdam in cui visse con la sua famiglia dal luglio del 1942 fino al giorno della drammatica cattura del 4 agosto del 1944, aveva voluto riempire la parete della sua cameretta con immagini avute in regalo o ritagliate dai rotocalchi. «Ne ho fatto un grande poster», scrisse con un accento di felicità nel suo Diario. Erano spesso foto di persone che sorridevano.

Ognuna ha dietro una storia, come quella di Joyce van der Veen, una coetanea di Anna che all’età di tredici anni era conosciuta in Olanda come promettente ballerina. Anche ad Anna piaceva sempre sorridere quando si metteva in posa, ad esempio per il fotografo della scuola. Lo scatto che in questi giorni ci è arrivato sotto gli occhi, ad esempio, è uno scatto del 1942, che lei aveva attaccato sul foglio di un album, insieme ad una serie di sue foto messe in sequenza cronologica. Aveva 13 anni, ma lasciava trapelare una maturità che andava già oltre la condizione adolescenziale. Indossa anche una giacchetta elegante, di cui sembra andare orgogliosa.Sembra quasi di leggerle il pensiero: quando ci si mostra al mondo, ci si deve mostrare ben messi; chi ci guarda da una foto deve guardarci contento. «Questa fotografia mi ritrae come vorrei apparire sempre. Se fossi così, potrei avere ancora qualche speranza di andare a Hollywood. Ho paura, però, di avere un aspetto decisamente diverso, adesso», scrive sempre nel 1942 in una pagina del Diario. Il riferimento è ad un’altra sua immagine dell’anno prima, ma potrebbe valere anche per la «nostra». In questo suo mostrarsi sembra che Anna sia già oltre il dramma che travolgerà la vita sua e quella della sua famiglia.

Il sorriso è uno di quei sorrisi che nessuna violenza, nessun orrore (e, a questo punto, dobbiamo aggiungere, anche nessuna idiozia) potrà estirpare dal cuore della storia e quindi dai nostri sguardi. È il sorriso che sta dietro tante parole indimenticabili che abbiamo letto nel suo Diario. Come queste: «Non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte. Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità».

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