Il test nucleare
terremoto politico

Ci vorranno diversi giorni di analisi per verificare se l’ordigno fatto esplodere dalla Corea del Nord – ultimo Paese stalinista del mondo – era davvero una bomba all’idrogeno «miniaturizzata», come sostiene il regime, o solo un’altra atomica, magari potenziata dall’aggiunta di tritio, come sospettano molti esperti internazionali. Ma neppure questo tempo basterà per capire che cosa il giovane dittatore Kim Jong-un si proponga con questo nuovo test, unanimemente condannato da tutti gli altri Paesi del mondo, alleata Cina compresa.

Pyongyang, nonostante anni di tentativi per fermarla con un’alternanza di bastone e carota, è già una potenza nucleare, con tre test alle spalle - 2006, 2009 e 2013 - e plutonio sufficiente a costruire dalle otto alle dodici bombe A. Nel trionfale annuncio di ieri, Kim ha sostenuto che la bomba H (sperimentata per la prima volta dagli americani nel 1952 e dieci volte più potente di quella a fissione) è necessaria per difendere il Paese dagli attacchi degli Stati Uniti e degli altri nemici, ma in realtà non cambia di molto i rapporti di forza. Nessuno - né Washington, né Seul, né Tokyo - ha mai minacciato un’azione militare contro Pyongyang, e se il leader nordcoreano (che molti analisti considerano un megalomane irresponsabile) dovesse attaccare per primo, il suo Paese verrebbe spianato nel giro di poche ore dalla reazione americana. Inoltre, per passare dall’attuale stadio sperimentale alla costituzione di un vero e proprio arsenale di testate H, la Corea del Nord, uno dei Paesi più poveri dell’Asia avrebbe bisogno di ingenti risorse di cui non dispone. Il vero pericolo, secondo alcuni analisti, è che Kim punti segretamente a vendere il suo ordigno, e i missili già sperimentati che servono a portarlo a destinazione, a qualche Paese del Medio Oriente.

In realtà, l’esplosione di ieri, effettuata in flagrante violazione delle risoluzioni dell’Onu, non rafforza, ma indebolisce la posizione di Kim, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con l’unico alleato che gli rimane, la Cina. Pechino ha scarsa simpatia per il giovane dittatore e non lo ha mai invitato, ma continua a commerciare con la Corea del Nord e a rifornirla dei prodotti indispensabili alla sua sopravvivenza perché teme che un eventuale crollo del regime destabilizzi l’intera regione e le porti una marea di profughi.

Quanto al resto del mondo, non ha molti strumenti per rispondere. Il premier giapponese Abe si è limitato a dire che «non possiamo tollerare questa nuova minaccia», Obama (per cui la mossa di Kim rappresenta comunque un ennesimo smacco, subito sfruttato dai candidati repubblicani alla presidenza) ha lasciato il compito di condannare il test ai suoi collaboratori e gli altri leader hanno usato parole forti, ma non hanno preannunciato ritorsioni. La reazione sarà probabilmente affidata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, riunito d’urgenza, che dovrebbe rafforzare ulteriormente le sanzioni già in vigore.

La nuova provocazione del giovane dittatore mette comunque fine alla possibilità che Usa, Russia, Giappone e Corea del Sud rinnovino i loro tentativi – già falliti in passato – di concludere con Pyongyang un accordo simile a quello firmato di recente con l’Iran. Che la Corea del Nord continui a dotarsi di nuovi ordigni nucleari viene considerato, in un certo senso, ineluttabile, e le conseguenti nuove tensioni in Estremo Oriente inevitabili, come dimostrano anche le reazioni della Borsa: ma – tutto sommato – il bang della scorsa notte non ha reso il mondo un posto più pericoloso di quanto non sia già.

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