Il topo lombardo
Il gattone romano

Stringi stringi, viene al pettine il problema non dichiarato, ma reale, della sopravvivenza stessa dell’ente Provincia, e il rischio è che dalla cinghia alla vita si passi presto al nodo alla gola che, ancor prima di poterla battezzare «area vasta», soffochi a morte la più antica istituzione pubblica del Paese.

Una specie di masochistica eutanasia di uno spazio politico e amministrativo. E pazienza per Province senza storia e poca geografia, ma il problema è serio per un territorio di più di un milione di abitanti e 242 comuni. L’antefatto è noto: per concedere qualcosa all’onda materializzatasi con il voto paralizzante del 2013 (né vinti né vincitori, ma tanta voglia «anti»), fu scelto di colpire l’anello debole del sistema, quello non in grado di difendersi, lasciando tranquillo il ben più censurabile gigante Regioni. L’abolizione della parola «Provincia» è entrata così nella riforma costituzionale incentrata su un’altra «abolizione» controversa, quella del Senato, riforma la cui approvazione finale sta ora scivolando in avanti non per ripensarla ma perché non si vuole che i contrasti interni al Pd su questo tema siano troppo evidenti alle Feste estive dell’Unità (!). Nel frattempo è operativa la riforma Delrio, che regola la fase transitoria verso le non Province, tutte da costruire accanto alle città metropolitane già esistenti, ma ancora evanescenti.

A pagare il primo conto è stata la politica in quanto tale: niente elezioni dirette, pochi consiglieri, assessori un po’ clandestini, presidenti senza paga. Con il risultato paradossale di affidare le nuove realtà ad accordi di corridoio molto partitocratici che non sempre, come a Bergamo, sono stati nobilitati da aggettivi come «costituenti». Il secondo conto lo hanno pagato i dipendenti, che dovrebbero essere tagliati del 50% e salveranno forse il loro futuro solo grazie a quei politici che la riforma ha esautorato per dare ai funzionari grandi poteri. Il terzo e non ultimo conto rischia di pagarlo il territorio, per il crollo delle risorse: il sadico miliardo in meno di quest’anno e i tagli a crescere del triennio.

Ed è qui che il meccanismo rischia di incepparsi, mandando all’aria, da noi, la faticosa ma lucida linea perseguita in via Tasso: puntare sul coordinamento solidale dei Comuni, individuare con chiarezza, in attesa dei fondi, scelte-chiave di programma (vedi interporto ad Antegnate o asse ferroviario urbano), introdurre innovazione (banda larga), salvare i progetti sine qua non (Zogno e Cisano, purtroppo a costo di penalizzare la Bergamo-Treviglio) e infine rimettere in circolo il sostegno ai disabili, punto socialmente ineludibile.

Ma per fare anche il minimo di quello che si deve, i soldi non ci sono: non l’intoccabile tesoretto di 70 milioni (patto di stabilità, croce e delizia del Renzi europeo), non quelli statali (mancano almeno 8 milioni) e sub judice quelli regionali, a partire da cinque milioni per i trasporti, a seguito di una svogliata applicazione lombarda della Delrio. E qui viene una complicazione in più, tutta politica: la tentazione della Regione a trazione leghista di mettere in evidenza l’errore romano della riforma, fino al punto di mandare in default le Province interne e creare il caso. Mossa politicamente non banale, così come quella di riservare all’unica Provincia verde della Lombardia, Sondrio, una forte autonomia in nome della sua natura montana (idea stimolante, da applicare però se mai a tutta la fascia pedemontana, con ricadute importanti a Bergamo). Il topo lombardo che gioca una partita simbolo col gattone capitolino?

Speriamo di no, perché altre Regioni non meno critiche hanno scelto strade diverse, per ammortizzare gli effetti, su dipendenti e cittadini, di una riforma che ottimisticamente è bella per ora solo in futuribile, quando si metterà mano ad una risistemazione generale del territorio e si studierà una nuova mappa interna dello Stato (sempre salvando le Regioni?).

C’è qualcosa di greco, o di grexit, in tutto questo. Ma se mettiamo i baffi di Maroni alla Merkel non ci guadagna né l’estetica né la politica.

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