In fila per Alex
Un capitale umano

La vicenda ormai la conoscono tutti e tiene tutti in apprensione: Alex Montresor è un bambino di 18 mesi, nato a Londra da papà veronese e mamma napoletana, affetto da una rara malattia genetica che necessita di un trapianto di midollo per sopravvivere, la linfiostiocistosi emofagocitica. Si tratta di una malattia genetica molto rara (colpisce lo 0,002 per cento dei bambini) che non consente al sistema immunitario di identificare e quindi combattere batteri e virus. Alex non ha finora trovato nei registri mondiali dei donatori alcuna compatibilità con il raro antigene di cui è portatore, che è presente in un individuo ogni 100 mila.

Per questo il papà di Alex, Paolo Montresor, ha lanciato un appello via Facebook, facendo «parlare» il bambino in prima persona: «Visto che sono figlio unico, e non ho quindi nessun fratello o sorella che mi possa donare il proprio midollo, i miei genitori hanno cercato sia nel registro mondiale dei donatori di midollo osseo, che in quello dei cordoni ombelicali ma purtroppo non esiste a oggi alcun donatore compatibile. Quindi non mi resta che cercare mia sorella o mio fratello maggiore altrove...». E come cercarlo? Mobilitando l’Admo, l’Associazione donatori di midollo osseo, e organizzando uno screening di chi si dichiarava disponibile alla donazione. I candidati devono essere giovani, perché per procedere con la donazione non si devono avere più di 36 anni.

Così giovedì è stato organizzato un laboratorio mobile a Milano in zona Politecnico, una zona dove era facile intercettare potenziali volontari giovani. Non c’è stato bisogno di fare altro, perché davanti al gazebo montato in piazza Sraffa in poco tempo si è formata una coda di centinaia di ragazzi. Doveva essere una semplice raccolta di routine e invece si è trasformata in una dimostrazione spontanea di solidarietà collettiva che ha travolto gli stessi organizzatori. A mezzogiorno la dottoressa dell’ospedale San Raffaele addetta ai prelievi aveva già finito la scorta di provette che sono state recuperate velocemente al Policlinico. L’hastag #match4alessandro ha macinato contatti tutta la giornata alimentando la fila. C’era da aspettare anche ore per arrivare al proprio turno, ma nessuno si è spazientito, facilitato dalla giornata di sole su Milano. A fine giornata sono stati 581 gli screening effettuati e mandati nei laboratori ospedalieri per le tipizzazioni. Come ha raccontato un giovane avvocato che si è messo in coda: «Abbiamo un figlio da un mese. Mia moglie mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Vai. Abbiamo pensato che Alessandro potesse essere figlio nostro. Non si poteva stare fermi».

E così è diventato uno dei 581. Tutte storie di un’Italia che non si chiude in se stessa e sceglie la vita contro il fatalismo. Storie che dovrebbero costringere a rivedere tanti stereotipi. Certamente quella di giovedì è stata una prova di solidarietà ben visibile e sorprendente per la prontezza della risposta. Ma comportamenti come questi non nascono dal nulla e non possono essere spiegati solo come frutto di scelte emotive estemporanee. Tanti ragazzi si mettono pazientemente in coda grazie a una cultura dell’altruismo molto più radicata di quanto non si pensi. Dobbiamo chiederci se quello a cui abbiamo assistito in piazza Sraffa sia frutto di un’eccezionalità o invece non sia che il venire a galla di una normalità di atteggiamenti e comportamenti che contrassegnano la vita di una città come Milano. Forse la grande accelerazione che il capoluogo lombardo ha vissuto in questi ultimi anni si spiega proprio perché al fondo è stata custodita e aggiornata quella dimensione solidale e civile che ne ha segnato la storia. Si dice che la ricchezza di un paese e di una città sia il suo capitale umano. Quello di piazza Sraffa era vero capitale umano.

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