Investire nel paese
per farlo crescere

Circa un secolo fa, l’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946) sostenne che nei casi di crisi economica e occupazionale una soluzione è rappresentata dall’investire denaro pubblico in opere di utilità generale. Si crea in tal modo un circuito virtuoso perché i soldi pubblici assicurano un salario ai lavoratori, che lo spendono per acquistare quelle merci che erano fuori dalle loro possibilità. Per produrre tali merci le imprese effettuano investimenti e assumono altri lavoratori che, a loro volta, consumano altre merci.

Alla fine, imprenditori e lavoratori pagano, in nuove tasse, più di quello che lo Stato aveva speso per avviare le opere pubbliche. Questa ricetta fu applicata negli Stati Uniti da Franklin Delano Roosevelt e con i soldi dei contribuenti furono costruite molte opere pubbliche, soprattutto destinate a grandi interventi per la tutela dell’ambiente.

Dopo il 1945 anche nel nostro Paese furono attuati molti investimenti pubblici destinati, però, in prevalenza alla ricostruzione di ponti, strade, ferrovie e all’edilizia popolare. Nonostante i molti errori e i tanti episodi di corruzione, si generò nuova occupazione nei cantieri e in grandi aziende pubbliche che portò alla riscossione di nuove tasse da un lato e, dall’altro, ad una crescente domanda di abitazioni, elettrodomestici e automobili.

Così, il Paese ha potuto godere di una consistente ripresa del Pil per oltre venti anni. Successivamente, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito a una fase di crescita scriteriata della spesa pubblica, in larga parte improduttiva, che ha giovato ad interessi di parte e non è servita a contrastare e, anzi, ha per certi versi aggravato gli effetti depressivi delle ricorrenti crisi.

Oggi, dopo l’ultima gravissima crisi, in assenza di sensibili segnali di ripresa s’impone la necessità di un vero e proprio progetto d’investimenti per la crescita, che riesca a mobilitare le risorse imprenditoriali a vocazione locale e generi tanta nuova occupazione, specie giovanile, coinvolgendo le aree più periferiche del Paese.

La «flessibilità di bilanci» richiesta dal governo all’Europa per circa 15 miliardi di euro, se ottenuta, deve interamente essere destinata alla realizzazione d’interventi che puntino alla tutela del territorio, alla sicurezza degli abitanti, alla valorizzazione delle ricchezze naturali, storiche e artistiche, al recupero e all’adeguamento del patrimonio immobiliare esistente anche con finalità antisismiche. Le centinaia di vittime del terremoto che ha devastato il Centro Italia ci evidenziano che in Italia, dove mediamente si registra un terremoto ogni 5 anni, il 70% delle costruzioni nelle aree più critiche non rispetta le regole antisismiche.

Le macerie di Amatrice, di Pescara del Tronto e di Arquata ci dicono che, nonostante l’Italia sia il Paese d’Europa dove la terra trema di più, circa il 70% delle scuole italiane sono a rischio e gli stessi Palazzi ove si legifera non sono a norma. A Norcia, ove le scosse ripetute nei secoli hanno consigliato una ricostruzione rigorosamente rispettosa delle norme, nessun edificio è crollato e nessuna delle 20 mila persone presenti ha subito danni. Il Giappone, del resto, dove il terremoto arriva violento una volta al mese, ha ormai acquistato il primato della messa in sicurezza delle abitazioni.

Ma anche il nostro Paese ha riservato, in un passato remoto, una grande attenzione ai problemi della salvaguardia dell’ambiente. Prima i monaci nel Medio Evo e, nell’età moderna, governanti illuminati si sono resi protagonisti di grandi interventi di forestazione, di sistemazione degli argini dei fiumi, di contenimento di terreni franosi, di consolidamento delle costruzioni. Se ne parla in un libro dal titolo «L’uomo come modificatore della natura», segnalatomi da un amico geologo. Lo ha scritto George Perkins Marsh, inviato in Italia nel 1861 da Abraham Lincoln come rappresentante degli Stati Uniti. Nel libro si fa riferimento a molte opere pubbliche di tipo ambientale che hanno destato l’ammirazione dello scrittore, realizzate da Cavour in Piemonte, dagli Sforza e dai Gonzaga in Lombardia, dai Lorena in Toscana e perfino da Garibaldi nel Lazio.

Se i nostri governanti avessero calcolato quanti soldi vanno spesi ogni anno (circa 100 miliardi di euro negli ultimi 50 anni) e soprattutto quante irreparabili tragedie si generano a causa dei vari disastri ambientali, si sarebbero resi conto, per tempo, dell’enorme utilità economica e sociale di un grande piano di lavori pubblici orientato alla loro prevenzione.

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