La battaglia degli ulivi
Paradosso ambientale

Con una sentenza al giorno emessa dal Tar (l’ultima è di ieri), dal Consiglio di Stato e addirittura dalla Corte Costituzionale, continua la telenovela del gasdotto che, partito dall’Azerbaijgian, arrivato all’ultimo di 878 chilometri, si ferma sulle coste pugliesi, bloccato da carte bollate, manifestanti, sindaci con fascia, polizia antisommossa e ora persino da bambini che vengono mandati a fermare i camion. Mentre Trump sblocca il carbone in Usa, noi facciamo la battaglia degli ulivi contro il gas pulito.

Certo, è più facile parlare da Bergamo di un fatto che accade nell’estremo lembo d’Italia, nel Salento, ma anche al Nord non mancano ipocrisie di questo genere, con i nostri bravi effetti nimby. «Fatti più in là», cantavano dei personaggi che si chiamavano non a caso sorelle Bandiera. Ma quello che arriva sulle coste italiane, immergendosi perché non lo si veda dalla spiaggia, è un tubo di meno di 0,9 metri di diametro, che apre una via di trasporto che non ci esponga troppo ai ricatti russi, con tanto di effetto Ucraina, che ogni tanto resta al freddo perché critica Putin quando si prende la Crimea. Centinaia di km e infine ecco le sponde italiane da percorrere per 1.500 metri sottoterra. Nella Cina «comunista» si abbatterebbero 215 ulivi senza tante storie, ma da noi (giustamente) se ne occupano Comuni, Provincia, Regione, Ministero, ciascuno con molti uffici interni che si trattengono la «pratica» per mesi e mesi prima di trasferirle a Commissioni zeppe di esperti. E non basta, perché arrivano Tar, Consiglio di Stato e Consulta. Il tutto, in un vera e propria alluvione di convegni, dibattiti tv, interviste, mozioni, blog e post sui social. È la democrazia (non) decisionista all’italiana. In Francia, la procedura si chiama «debat public», si svolge in tempi predeterminati e se arriva a una conclusione non è che si apre il centesimo grado di giudizio, quello della piazza, dei manganelli e dei bambini ostaggio umano davanti ad un ulivo, non un carro armato come a Tien an Men.

I 10 miliardi di metricubi di gas (per 50 anni) intanto aspettano, i miliardi di euro da investire in Italia restano in banca, il Pil ristagna, il lavoro manca. Ma per il sindaco di Napoli De Magistris è tempo di fare una «lotta di liberazione» (degli ulivi?), e per il governatore Emiliano c’è la partita di ritorno dopo i milioni di euro spesi inutilmente per indire il cosiddetto referendum sulle trivelle. Poco importa che gli uffici regionali abbiano autorizzato l’intervento in loco, con firma delegata dal governatore, che peraltro pochi mesi fa, ha pomposamente inaugurato un chilometrico acquedotto (tubo di 1,4 metri di diametro), che nel silenzio generale, ha prodotto l’espianto di 2.500 ulivi. Le 215 piante in questione, sono tra le più belle del mondo, intendiamoci. Alcune dei veri e propri monumenti della natura. Ma a parte i 4 ulivi ammalati e che devono comunque essere abbattuti per non nuocere agli altri, i 211 malcapitati devono essere soltanto ritrapiantati, aggiungendone di nuovi. L’uliveto tornerà più bello di prima, nonostante il «mostruoso» tubo sottostante.

Non sappiamo naturalmente se il percorso scelto sia davvero quello più giusto. Ci basta sapere che sono stati studiati ben 14 itinerari alternativi e che le commissioni hanno obbligato i costruttori a rispettare ben 66 prescrizioni ambientali e paesaggistiche. Certo basterà metterne in discussione una (pare sia la 44) per riaprire l’iter già formalmente chiuso con la cosiddetta autorizzazione «unica» del maggio 2015 (due anni fa), e il balletto continuerà. British Gas ha rinunciato ad un terminale poco più in là, a Brindisi, dopo 8 anni persi e 500 milioni spesi, stordita da queste contraddizioni. Altri inglesi, della Rockhopper, hanno chiesto all’Italia 260 milioni di danni per un progetto simile bloccato a Ravenna, 2,6 euro a testa per ciascuno di noi, ignari di questi capricci regionali. Tra l’altro, visto che il 4 dicembre è stata cancellata anche la riforma costituzionale che voleva riportare allo Stato competenze energetiche improvvidamente trasferite alle Regioni, è facile prevedere altri blocchi. Insomma, negli uliveti pugliesi si combatte una battaglia che ha per sé l’eterno, come avrebbe detto il filosofo. C’è stato un tempo in cui cose come queste si facevano senza tante procedure e non lo rimpiangiamo, perché è lo Stato, non il privato, che ha riempito di ferro e cemento la piana (degli ulivi) di Gioia Tauro, ha costruito l’Ilva dentro Taranto, ha fatto sorgere la chimica a due passi dal Canal Grande. Merito del migliore ambientalismo è stato poi quello di aver chiesto e ottenuto regole, prove scientifiche, rispetto della cultura, della storia, del paesaggio. Per questo ci sono infatti le valutazioni dell’impatto ambientale, le commissioni, le relazioni degli esperti. Ma se alla fine tutto ciò non conta niente, non è come tornare allo stato brado di un tempo? Se dobbiamo metterlo ai voti, il buon senso perde. Siamo oltretutto in tempi in cui si affidano al web le scelte, e se il web sbaglia ci dobbiamo rimettere a uno che dice «fidatevi di me». Elimineremo le scie chimiche, proibiremo i vaccini e lasceremo in loco gli ulivi, ma non ci sembra un gran progresso.

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