La febbre sociale
del nostro tempo

Gira e rigira, il punto rimane questo: le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, la febbre sociale del nostro tempo. La Grande Frattura come l’ha definita il Nobel dell’economia Stiglitz: la prevaricazione dei pochi sui tanti, il senso prevalente di un’ingiustizia elevata a sistema, società divise. Lo abbiamo visto anche con Brexit, ma questo tema rappresenta la mano invisibile che guida qualsiasi elezione: è in cima alle preoccupazioni dei cittadini e determina il loro orientamento politico.

La distanza in crescendo è la concreta unità di misura, la cifra dello smarrimento: fra metropoli e periferie, giovani e anziani, operai e laureati, vincitori e perdenti. Paradosso vuole che la crisi della socialdemocrazia e del popolarismo interclassista coincida con la domanda di maggiore giustizia sociale. In Italia mentre celebriamo le virtù del quarto capitalismo, quello delle multinazionali tascabili, sorvoliamo sui due milioni di minori in condizioni di povertà assoluta.

La crisi sociale penetra in profondità e rischia di essere più lunga di quella economica che dura ormai da otto anni. Le oscillazioni del Pil, nel bene e nel male, non riflettono la realtà psicologica della vita di tutti i giorni. In Europa, nonostante la crescita degli occupati nel 2015, ci sono ancora 6 milioni e 200 mila disoccupati in più rispetto al 2008.

Le disparità di status (citiamo dalla Stampa) sono visibili: il reddito netto pro capite italiano è il 79% di quello tedesco, mentre quello greco è poco più di un terzo di quello tedesco, danese e francese. In Inghilterra, dove ancora funziona una rigida struttura di classe, il 20% della popolazione più ricca detiene un reddito 5 volte superiore rispetto alla quota del 20% più povero, così come in Germania, mentre il valore sale a 5,8 in Italia e a 6,8 in Spagna. La media europea della povertà relativa è del 17,2% ma sale al 19,4 in Italia e supera il 22 in Grecia e in Spagna. I minori e i giovani sono i più colpiti.

La crisi del ceto medio (o meglio: del ceto medio-basso) precede l’attuale depressione, ma forse oggi questo concetto ha perso significato per descrivere i diversi strati della società.

Quel che conta, tuttavia, è che s’è indebolito il ruolo di cerniera fra ricchi e poveri svolto dal ceto medio, la spina dorsale delle democrazie occidentali nel secondo dopoguerra, aprendo così un varco di cui conosciamo il punto di partenza ma non la traiettoria finale. Tutto si tiene nell’età del disincanto: questione sociale, mal di nazione, crisi dei partiti storici. La stessa globalizzazione, in via di ripensamento come indica il netto rallentamento dell’accordo di libero scambio fra Ue e Stati Uniti, presentata negli anni ‘90 come un buon affare per tutti, propone da un po’ di tempo gli esiti più indesiderati: non ha favorito il ceto medio dei Paesi industrializzati, ma chi già aveva redditi elevati.

Nel mondo global lo scambio s’è fatto disuguale: il vantaggio di qualcuno provoca lo svantaggio di qualcun altro. Persino l’Economist nel fare autocritica, ha scritto che le élites politiche non hanno fatto abbastanza per aiutare i perdenti. Lo stesso Fondo monetario internazionale, che aveva pilotato il «consenso americano» (austerità e liberalizzazioni), oggi riconosce la necessità di una «globalizzazione benevola» e ammette che s’è scavato il divario fra vincitori e vinti.

Le politiche pro business, specie quelle fiscali, e la svalutazione del welfare (l’istituto che dà cittadinanza democratica attraverso la garanzia dei diritti sociali) hanno generato la secessione dei ceti popolari. Il pericolo rappresentato dalle forze anti sistema rende oggi presentabile quel che ieri era ritenuto un elemento di disturbo: il diritto di cittadinanza delle sofferenze di chi non riesce a stare al passo, delle vittime del metodo «chi vince prende tutto»: «Non è solo sulle opportunità per gli eccellenti – ha scritto l’economista Leonardo Becchetti su Avvenire - ma anche su una vita più decente per i normali che si gioca il successo del contrasto allo spettro dei nazionalismi e la costruzione di una globalizzazione che sia corsa al rialzo e non al ribasso sui diritti della persona».

La distanza che s’è creata fra capitalismo e democrazia ha rovesciato i rapporti di forza sociali, lasciando il campo ad alternative estreme: da un lato i populismi che incassano consenso ma che devono governare negando il proprio programma (è il caso della sinistra greca) e dall’altro la tecnocrazia social-liberale dispensatrice di deflazione e che, rispettata dal mondo che conta, è caduta per deficit sociale e di progetti inclusivi. A ben vedere le stesse difficoltà del governo Renzi, cioè di un necessario europeismo critico rispetto all’ortodossia economica, sono figlie di una crisi più generale ma anche di un’urgenza tardivamente avvertita dalle classi dirigenti europee: la necessità di forti istituzioni democratiche per governare il turbocapitalismo e arginare la crescita delle disuguaglianze.

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