La politica estera
solo ora è un’urgenza

Le elezioni non si vincono sulla politica estera. Ma se non ci occupiamo del mondo, il mondo si occupa comunque di noi. Queste evidenze ricordano un nervo scoperto del dibattito pubblico, non solo in Italia. Riguardo al nostro Paese rimarcano però un deficit particolarmente serio, affetti come siamo da provincialismo. Le cronache di questi giorni debordano di politica estera, come è ovvio che sia dopo un susseguirsi di eventi eccezionali, dal sì alla Brexit alla strage di Nizza al colpo di Stato fallito in Turchia. Ma è nell’ordinarietà che si pesa la scarsa attenzione agli accadimenti oltre confine,non nell’emergenza.

Nei timoni della carta stampata nazionale e nelle scalette dei telegiornali la politica nostrana ha d’abitudine un rilievo sproporzionato. Sulla battuta di un leader politico si costruiscono cronache ed approfondimenti estenuanti che durano il tempo di un paio di giorni, quando il tema si sgonfia nell’irrilevanza della realtà. Una visibilità farlocca che ha maleducato la politica, alla ricerca di facile ribalta mediatica attraverso annunci e provocazioni, dentro il rapporto perverso che lega media e leadership partitiche. Da strumenti per la narrazione e la comprensione dei fatti, giornali, tv e siti internet di informazione diventano così megafoni di appetiti piccini.

Deprimente fu lo spettacolo offerto da questo sistema nel corso della campagna elettorale per le Europee del 2014: le cronache dei giorni che precedettero il voto furono un susseguirsi di polemiche con oggetto la politica nazionale e non il destino del Vecchio continente. Eppure fenomeni come l’economia, l’immigrazione e il terrorismo non si possono comprendere senza uno sguardo profondo oltre le frontiere, una globalizzazione delle conoscenza della quale oggi siamo carenti. Così l’effetto è sempre quello della sorpresa, nella posizione di chi aveva gli occhi rivolti altrove e non si è accorto di cosa accadeva oltre il proprio cortile.

Nella tanto vituperata prima Repubblica, i partiti erano anche una grande scuola di formazione alla conoscenza del mondo, ciascuno con le proprie chiavi di lettura ideali o ideologiche ma proiettate oltre l’Italia, che allora era la cerniera fra il blocco capitalista occidentale e quello comunista orientale. Perché la politica estera non è materia di studio per intellettuali o per snob ma identifica il nostro modo di vedere il mondo e di viverlo. Ed è un sistema di relazioni che genera conoscenza ed ha conseguenze importanti sui destini dei popoli. Ad esempio, per restare alla stretta attualità: come giudichiamo le alleanze che l’Occidente ha intessuto con alcuni Stati strategici? Abbiamo rotto con la Russia di Putin (imponendole sanzioni) per la crisi dell’Ucraina e non con l’Arabia Saudita, nostro socio in affari ma sostenitore e finanziatore dell’Islam più radicale al quale si ispirano terroristi e fiancheggiatori...Per non parlare della sudditanza con la quale ci siamo accodati alle (dis) avventure belliche in Iraq e Libia. Non a caso la Chiesa si oppose a quelle iniziative scellerate: non per irenismo ma per conoscenza delle realtà locali, grazie a una presenza capillare e sensibile in quelle terre.

Altro caso recente è il dibattito mediatico generato dalla pubblicazione da parte de «il Giornale» del «Mein Kampf» di Hitler. Sarebbe più utile invece conoscere e discutere di un altro libro, «Gestione della barbarie», riferimento dottrinario degli jihadisti, nel quale si legge: «L’unico vero ostacolo sulla via dell’istituzione del dominio di Allah sul mondo intero è costituito da quei musulmani che si concedono delle debolezze e che invece dovrebbero condurre il jihad con il massimo della forza e della violenza». Nel testo, ricordava ieri l’Osservatore Romano, « si spiega bene come bisogna agire per polarizzare le differenze tra jihadisti e islamici moderati, radicalizzando alcuni di questi e, soprattutto, per alimentare il ciclo delle violenze e delle ritorsioni con un conseguente incremento del caos: più chiaro di così impossibile». In un altro passaggio del manifesto jihadista è scritto: «Lo schiacciante potere militare di una superpotenza può diventare una maledizione se la sua coesione sociale collassa». «Nella logica della propaganda dei fanatici - conclude l’Osservatore Romano - colpire una qualsiasi città occidentale risulta così incisivo, perché genera un livello di odio maggiore. Distruggere ogni possibilità di convivenza civile tra culture e religioni è il fine ultimo del jihadismo. Che lo afferma chiaramente. Basta leggere». Già, basta leggere.

La drammaticità e la complessità dei fenomeni che siamo chiamati a vivere in questa epoca richiedono un sussulto di responsabilità alle leadership culturali e politiche del nostro Paese, per tenere il dibattito al livello necessario a comprendere il mondo e ad attuare tentativi di risposte efficaci. Le schermaglie che si leggono nei social, dove la realtà è banalizzata fino alla sua negazione, lasciamole confinate in quelle piazze. Torniamo invece ad occuparci del mondo così com’è.

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