La protesta ha sconfitto
le sinistre in Europa

Più si sottolineano le differenze in Europa e più emerge la comunanza. Cosa unisce il risultato elettorale italiano al resto del continente se non la stessa condizione politica? Il successo dei 5 Stelle fa il paio con quella di Podemos in Spagna, trova paralleli nella Grecia di Tsipras. La Francia di Macron nasce da un terremoto che ha azzerato i partiti tradizionali e che nelle ispirazioni iniziali evoca le interconnessioni della rete globale così care ai devoti delle consultazioni on line e dello sviluppo sostenibile. La Lega per la sua parte trova assonanze nella Francia di Marine Le Pen, nei Paesi dell’Est, nella Germania di Afd, nell’Austria dei liberal-nazionalisti di Strache, nell’Olanda di Geert Wilders Fino ai seguaci di Farage e della Brexit.

Ma il convitato di pietra di questa rivoluzione ha un solo nome ed è la socialdemocrazia. Proprio quella forza politica che ha nei suoi cromosomi la capacità di intercettare il cambiamento e che ha perso il contatto con il suo popolo. Dalla Scandinavia fino all’Italia del Partito democratico la socialdemocrazia ha lasciato il passo ed i voti ai partiti di protesta.

In Germania nelle elezioni di settembre dello scorso anno la Spd ha perso piú del 5%, in Italia il Pd ha fatto peggio ed è sceso sotto il 20%. Dovrebbero andare all’opposizione, come un sistema di alternanza democratica prevede, e invece vengono chiamati a sorreggere le sorti di governi non da loro guidati. Solo questo dice dell’emergenza politica che attraversa il continente. Vi è un errore di fondo che unisce tutte queste sconfitte: non saper distinguere fra morale e politica. Nel Paese che ha dato i natali a Machiavelli ma anche nella nazione di Carl Schmitt e Max Weber. Il Partito democratico mentre cercava la sostenibilità dei conti rendeva insostenibile il flusso migratorio. Quando se n’è accorto con Minniti ministro dell’Interno lodato anche dal 5 Stelle Di Battista, era già troppo tardi. Migliaia di disperati invadevano le strade per la semplice ragione che lo Stato che pur li aveva salvati dai flutti del Mediterraneo non era in grado di provvedere a loro. E non lo era perché il Paese era in recessione, con la disoccupazione ai massimi, impoverimento della classe media, l’esasperazione del Mezzogiorno. Le ragioni ideali del socialismo portano ad aiutare chi ha più bisogno e quindi i diseredati della terra che approdano sulle coste di un continente ricco. Nel frattempo la società è cambiata e tanto abbiente non lo è più, se è vero com’è vero, che la globalizzazione in nome del libero mercato ha portato benessere a pochissimi e ha fatto strame di interi cicli produttivi e di ceti sociali.

Così l’immigrato nell’immaginario collettivo è stato identificato come il simbolo di un’apertura che per molti era diventata una chiusura. Chiusura delle fabbriche, delle prospettive di lavoro, della certezza di un futuro per le nuove generazioni. Ecco tutto questo travaglio è stato inseguito ma non affrontato per quello che è: un rimescolamento delle priorità sociali. Il vero interlocutore della coerenza istituzionale doveva essere il perdente della globalizzazione, il nostro vicino, ma la socialdemocrazia non se n’è accorta. Averlo trascurato ha portato alla contrapposizione con l’emigrato, l’espressione facciale di una trasformazione economica, politica e sociale che pregiudica le sicurezze di una vita. E proprio là a casa propria, nel luogo dove si dovrebbe percepire maggiormente la vicinanza solidale dello Stato. La percezione di un sentimento di estraniazione nel proprio Paese, nella terra dei padri e dei figli è proprio quello che non è stato perdonato. Il marchio di queste elezioni.

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