Heysel, la tragedia
e i «mai più sprecati»

Ti basta guardarlo, per capire. Ti basta guardare negli occhi il superstite dell’Heysel, per capire una volta di più cos’è stato l’Heysel. Ha gli stessi occhi di un superstite del Vajont visto su a Erto, o di qualche vecchio della Val di Scalve quando parla del Gleno.

Ha gli stessi occhi, scommettiamo, di uno che era a New York e sentì con le sue orecchie l’ultimo rombo di quel 767 che andava basso e veloce verso le Torri gemelle. Ha gli stessi occhi di chi sa che oggi potrebbe essere sottoterra e invece è ancora qui. Vivo, condannato a vita al racconto, e dunque a rivivere il dramma e a risentire vicino l’odore della morte (Minetto Locatelli, nella foto). Heysel non è una tragedia, non è «solo» una strage. Heysel è un tornante della storia, una ferita ancora aperta. Heysel è una password che riapre il passato. Ricordi dov’eri quella sera, il giorno dopo, con chi ne parlavi. Ricordi la maestra delle elementari, la signora Maria, che si presentò in classe con la radiolina, per sentire le notizie di Bruxelles. Heysel è una lezione, un monito: mai più, si disse migliaia di volte. Mai più gli hooligans e le loro nostrane imitazioni, mai più soldatini inermi a cavallo dentro gli stadi, che servono a niente.

Quanti «mai più» sono stati sprecati, dopo l’Heysel. Perché un dato è certo, inconfutabile: il calcio non ha mai dichiarato guerra all’Heysel. Si è tenuto dentro il ricordo, lo ha cicatrizzato, ma poi scusate, the show must go on. Lo dimostrò quella sera, con la partita che si giocò per forza, per non contare altri morti. Vince il male minore, e pazienza. Il male minore è la filosofia di fondo del calcio europeo, italiano, bergamasco. Il violento c’è ma sì, che vuoi che sia. Sono ragazzotti vivaci, meglio farli sfogare in uno stadio che altrove. Sbagliato. Perché questo è il cancello che una volta spalancato ti fa correre veloce verso ragionamenti perversi come quelli sentiti lunedì sera dalle parti di Roma, dove cantavano vittoria perché in fondo il derby era finito con due soli accoltellati. Gravi, ma vivi. Quel che il calcio non ha capito, o se l’ha capito nulla fa per difendersi, è che è diventato il pretesto per gli sfoghi peggiori. Violenti beceri da noi; nazionalisti criminali in taluni Paesi esteri; le mafie al Sud. Quel che il calcio perversamente insiste a non fare è domandarsi perché proprio il calcio sia la calamita di tutto questo. Per i soldi che vi girano, certo. Ma forse anche per la voluta assenza di anticorpi, se non la sottile complicità che per convenienza o quieto vivere spesso viene mantenuta con chi tira le redini dei greggi delle curve.

L’Heysel è una ferita aperta. Lo vedi da quanto questo trentesimo anniversario ha scoperchiato le emozioni della gente. Eppure il calcio non ha capito quella lezione, non ha onorato quei morti rendendosi diverso da se stesso. È stata bella, nei giorni scorsi, la commemorazione delle vittime fatta dalla curva della Juventus. Migliaia di cartelli bianchi sventolati in curva con i nomi dei 32 che non tornarono da Bruxelles. Eppure, è proprio quella della Juventus una delle curve più violente del calcio italiano. È la curva che tira bombe carta – a Bergamo, che certo non può dare lezioni di nonviolenza, lo ricordiamo bene – tra i tifosi avversari. È una curva tra le più aggressive, intransigenti, talebane del calcio italiano. Ricorda i morti dell’Heysel perché sono i suoi, ma nella stessa sera non disdegna schifosi incitamenti al Vesuvio perché faccia il suo lavoretto su Napoli e dintorni. O non manca di esporre striscioni osceni sulla tragedia di Superga. Un morto è un morto, invece, e la pietà dovrebbe volare ventimila metri sopra il tifo. È dura dirlo, ma è così: trent’anni dopo l’Heysel, il nostro calcio non l’ha ancora capito. E lascia che ogni domenica il male minore faccia gol a porta vuota.

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