L’alleanza vitale
tra Trump e Germania

«In tema di razze e muri diciamo che noi tedeschi siamo suscettibili». Il presidente di Siemens Joe Kaeser si è messo in prima fila nella battaglia contro la presidenza Trump. Dopo le dichiarazioni di Angela Merkel, del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, del re del Belgio Filip e del primo ministro belga Charles Michel è la volta dell’industria. Non sono parole al vento. Siemens fattura solo negli Usa 22 miliardi di dollari, ha 60 fabbriche con 50 mila addetti. Ha investito negli ultimi dieci anni 30 miliardi e pagato imposte per circa due miliardi all’anno. Il colosso tedesco si è unito al coro della Silicon Valley con i suoi maggiori rappresentanti, da Mark Zuckerberg, ceo di Facebook a Tim Cook di Apple, tutti concordi nel ribadire un solo concetto: gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati.

E qui passa la demarcazione tra la vecchia società industriale americana e quella della comunicazione digitale, della ricerca ipertecnologica. Che è come dire tra chi dalla globalizzazione ha tratto profitto e chi invece ci ha perso. Chi sono gli elettori di Trump se non le vittime di coloro che hanno pensato la finanza come nuovo Eldorado e hanno declassato la manifattura a roba da Terzo mondo? Certo hanno puntato sullo sviluppo informatico e tecnologico ma hanno saltato il passaggio decisivo, quello della fabbricazione. Produrre fuori dai confini era più conveniente e così milioni di americani, e non solo loro, si son trovati senza lavoro o con un reddito immiserito. In fin dei conti per multinazionali come Google darsi la patente di progressista fa chic soprattutto se poi le tasse non si pagano negli Usa o attraverso le consociate estere si riescono ad evadere. Diciamo che questi grandi gruppi della globalizzazione hanno preso tutti i vantaggi lasciando agli altri i problemi. Ma sono i vincitori di questa disfida planetaria. Contrariamente alla grande industria americana la Germania ha puntato sulla manifattura, ha vinto la scommessa senza dover delocalizzare e ha tolto il primato agli Stati Uniti come potenza industriale numero uno nel mondo occidentale. Quindi ora abbiamo una grande industria tradizionale in Europa e un grande settore terziario super connesso e con ricerca innovativa d’avanguardia negli Usa. Due mondi divisi dalla nazionalità ma entrambi vincenti ed egemoni nel loro settore.

È naturale che vi sia attrazione reciproca. Si pensi solo a quali spazi di collaborazione si offrono nel campo dei robot, della domotica, della mobilità senza conducente e così via. Una divisione internazionale del lavoro che ai tedeschi sta bene ma va a collidere con gli interessi vitali di una buona fetta di americani. Quelli che, appunto perché perdenti, non hanno rinunciato a dire la loro nell’industria e rivogliono il primato che fu. Questo spiega il silenzio dei tre grandi gruppi automobilistici General Motors, Ford e Fiat Chrysler. L’industria automobilistica è quella che maggiormente soffre la concorrenza dei prodotti tedeschi. Investire negli Usa costa e solo la promessa riduzione delle imposte e una minore severità nella tutela ambientale possono garantire al made in Usa la sopravvivenza. L’alleanza con Trump è quindi vitale.

La Germania ha innalzato la bandiera dei diritti umani perché solo con l’utilizzo di cervelli e di manodopera stranieri può sopperire al calo demografico di una società in precoce invecchiamento. Solo così può mantenere il primo posto. Questo spiega il perché della presa di posizione di una grande multinazionale come Siemens. Saperlo mascherare come slancio umanitario e prendere in mano il vessillo dell’eticamente corretto lasciato cadere dagli Usa è il grande capolavoro della classe dirigente tedesca e del cancellierato di Angela Merkel. Dopotutto Siemens le imposte le paga tutte in Germania.

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