Lavoro nero e povertà
i nodi del Belpaese

Un grande e giustificato allarme hanno destato i dati Istat, riferiti al 2016, sulle condizioni economiche degli italiani. Sono 1 milione e 619 mila le famiglie residenti in condizioni di povertà assoluta. Un totale di 4 milioni e 742 mila individui. Per povertà assoluta l’Istat fa riferimento a «condizioni di estremo disagio e di semplice sopravvivenza». Nelle famiglie la cui persona di riferimento è un operaio, l’incidenza della povertà assoluta è doppia (12,6%) rispetto a quella generale (6,3%). Risulta anche che l’incidenza della povertà assoluta diminuisce al crescere del titolo di studio. Per chi ha al massimo la licenza elementare è dell’8,2%, per chi è almeno diplomato è del 4%. Il Mezzogiorno resta l’area del Paese con l’incidenza più elevata (8,5%).

Ci sarebbe da chiedersi come mai, in presenza di un tale scenario, il Paese non si trovi in una situazione pre-rivoluzionaria, ancora più estrema di quella attuale, già così drammatica. La spiegazione sta nel fatto che i dati Istat non tengono conto di una quantità di reddito consistente che riviene dall’evasione fiscale, dal lavoro nero e dai pagamenti in nero. Secondo la Cgia di Mestre, nota per l’attendibilità delle proprie analisi, l’esercito dei lavoratori in nero presenti in Italia è composto da quasi 3 milioni di persone.

Un numero di «lavoratori clandestini» – certamente ricompreso dall’Istat tra coloro che vivono in povertà assoluta – che produce quasi 100 miliardi di Pil irregolare, pari al 6,5% del Pil nazionale e che sottrae alle casse dello Stato 42,7 miliardi di euro. Da notare, poi, come oltre il 40% dei lavoratori in nero, del valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa e del gettito di imposta evasa siano riconducibili alle Regioni del Mezzogiorno. La presa d’atto di tale fenomeno del nostro Paese, storicamente quasi «antropologico», ci consente di dimensionare meglio il fenomeno della povertà assoluta che emerge dai dati Istat. Ci dice, ad esempio, che il sommerso, in tutto il territorio italiano e particolarmente al Sud, ha costituito un vero e proprio «ammortizzatore sociale», facendo sì che la profonda crisi che ha colpito il Paese avesse effetti economici e sociali meno devastanti. Sia ben chiaro, il lavoro nero, spesso legato a doppio filo ad attività riconducibili alla criminalità organizzata, rappresenta una piaga che vede coinvolte milioni di persone, visto che è molto spesso legato a forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e mancanza di sicurezza.

Resta essenziale, quindi, la necessità di riportare la legalità all’interno del mondo del lavoro come precondizione cruciale per uno sviluppo sostenibile ed inclusivo dell’economia del Paese. Lo hanno ben presente i giudici della Cassazione, che con una recente sentenza hanno previsto come, in caso di lavoro nero, a rischiare non sia solo il datore di lavoro, con sanzioni pecuniarie fino a 36.000 euro, ma anche, se pure in misura minore, il lavoratore che non denunci il datore di lavoro rinunciando alla sua proposta. Inoltre, è prevista anche la reclusione fino a 2 anni per il lavoratore in nero che percepisca l’indennità di disoccupazione. È evidente, tuttavia, come sia oltremodo difficile pretendere comportamenti virtuosi da parte di chi vive situazioni di estremo bisogno. L’unica vera soluzione al problema consiste nel miglioramento delle condizioni economiche e sociali del Paese che trarrebbero certamente gran giovamento da una decisa e severa lotta all’evasione fiscale: secondo l’ultimo rapporto Eurispes del 2016, ammonterebbe ad una cifra compresa tra i 250 e 270 miliardi di euro, un valore pari al 18% del Pil del nostro Paese.

Della necessità di affrontare energicamente questo problema, che renderebbe possibile un taglio significativo delle imposte e una ripresa consistente dell’economia, se ne parla da tempo ma con risultati modesti anche per l’assenza di interventi legislativi efficaci. L’Italia è un Paese dove la popolazione penitenziaria per reati economici e fiscali è pari a un decimo della media europea e dove sarebbero stati individuati, secondo il settimanale L’Espresso, 518 contribuenti che dichiaravano meno di 20.000 euro di reddito, pur possedendo un jet privato. Secondo uno studio messo a punto dalla Confcommercio, se gli italiani fossero convinti di trovarsi di fronte ad un’amministrazione efficiente e severa come quella americana, dichiarerebbero d’un colpo 56 miliardi di euro all’anno in più. Negli Usa un certo James Lee Cobb III è stato recentemente condannato a 27 anni di carcere per una frode fiscale di tre milioni di dollari.

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