Le cadute di costume
e i valori comuni

La Festa della Repubblica si è svolta, quest’anno, in circostanze del tutto particolari. Dopo le elezioni del 4 marzo la situazione politica si era andata progressivamente deteriorando, fino a sfiorare la crisi istituzionale e il rischio di tracollo dell’intero sistema. Nel dipanarsi confuso, altalenante, a volte oscuro, della vicenda della formazione di un governo che desse sbocco all’esito del voto soltanto la straordinaria pazienza del capo dello Stato aveva permesso che si giungesse, proprio alla vigilia del 2 Giugno, a una soluzione dell’intricato pasticcio che era andato in scena nei precedenti 88 giorni. Le celebrazioni del 72° anniversario sono coincise con quelle del centenario della fine della Grande guerra, momento conclusivo di un’epopea nazionale segnata, per la prima volta e in modo indelebile, da profondi valori identitari.

Non soltanto perché il sacrificio dei tantissimi morti durante il conflitto aveva suggellato la conquista di territori che storicamente facevano parte del Paese, ma anche perché i tre anni di trincea dei soldati al fronte avevano fatto nascere e cementato uno straordinario senso di unità nazionale. Essere e sentirsi italiani era il frutto dello sforzo dell’intero popolo, unito in un grande vincolo di solidarietà. La parata - come tradizione – si è svolta ai Fori imperiali in una grande cornice di folla, alla presenza di tutte le massima autorità dello Stato. Si ritrovavano, quindi, simbolicamente insieme il soggetto al quale (secondo l’articolo 1 della Costituzione) appartiene la sovranità e i soggetti che – a norma dello stesso articolo – operano affinché quella sovranità venga garantita ed esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Istituzioni e cittadini uniti per riconoscersi nel patto democratico sancito dalla nostra Carta costituzionale.

In frangenti simili l’aspetto formale non è pura retorica, ma assume – più che in altre occasioni – un carattere di sostanziale adesione ai valori comuni. Nella tribuna presidenziale donne e uomini che rappresentavano, ai vari livelli, le istituzioni erano rigorosamente abbigliati in maniera consona all’evento. La tribuna dei sindaci era un mare di fasce tricolori, simbolo - sulle persone che le indossavano -, di appartenenza e di responsabilità assunte come obblighi civili. Ancor più questo senso profondo di adesione ai valori patriottici si manifestava in coloro che sfilavano innanzi alle autorità. Come non rimanere commossi al passaggio (applaudito lungamente con fervore) degli atleti delle Paraolimpiadi? Non minore sensazione di orgoglio si coglieva negli appartenenti – donne e uomini – ai vari reparti che passavano in rassegna lungo il percorso. Sacrificati, nella calura della giornata romana, in divise a volte pesanti e con l’onere di armi o di strumenti di lavoro. Eppure tutti disciplinatissimi, orgogliosi (ciascuno di essi) di rappresentare un corpo che è al «servizio esclusivo della Nazione» (altro articolo della Costituzione). In questo rigoroso, e insieme festivo, scintillio di spade e di strumenti musicali stonava, in maniera evidente, la sciatteria nell’abbigliamento di una serie di persone presenti, tanto in alcune tribune quanto nella stessa via dei Fori imperiali. Uomini in pantaloncini corti, donne in canottiera, alcuni con l’una e gli altri. Uno spettacolo di scarso decoro che strideva fortemente con l’occasione e il contesto. A chi scrive sono venuti in mente – in ragione dell’età non più giovanile – momenti come le domeniche o i giorni di ricorrenze importanti (Natale, altre feste civili e religiose), nelle quali soprattutto le persone di condizione più umile si facevano obbligo di tirar fuori il «vestito buono», magari l’unico che avevano, per non «sfigurare» di fronte agli altri. Per sentirsi, quello che in realtà erano: cittadini come tutti gli altri, con pari diritti e pari doveri. Forse dovremmo riflettere sulle ragioni di queste cadute di «costume». Non soltanto nel significato di vestiti, ma dei valori delle persone che li indossano.

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