Le imprese pubbliche
passo avanti dell’Italia

La Cassa depositi e prestiti intende rilevare fino al 5% di Tim proprio nel bel mezzo della contesa tra Vivendi di Vincent Bolloré e il fondo Elliot. I francesi detengono il 24% e gli americani sono vicini al 10% del pacchetto azionario. La discesa in campo della Cassa determina uno spostamento negli equilibri azionari e di fatto rende lo Stato l’arbitro dei futuri sviluppi della compagnia telefonica. È un punto importante che segna un cambiamento nella politica economica e finalmente pone al centro l’interesse nazionale. L’Unione europea ha sempre difeso il libero mercato ma riconosce agli Stati il diritto di tutelare il valore strategico delle imprese.

È fuor di dubbio che nella rete telefonica e di internet passino informazioni sensibili e riservate per uno Stato. L’Italia è l’unico membro dell’Unione fra i grandi Paesi che abbia permesso ad aziende straniere di entrare in possesso di una struttura strategica così rilevante per gli interessi nazionali. I dati della difesa, della politica estera, dell’economia passano tutti per i cavi e pensare che un privato per di più straniero possa ricavarne anche solo teoricamente un vantaggio è inammissibile per la sovranità di uno Stato.

Lo sanno bene in Francia ma anche in Germania dove le grandi imprese di servizi da Deutsche Post a Telekom a Deutsche Bahn sono controllate indirettamente dalla mano pubblica. Un’operazione come quella di Vivendi su un asset come Telecom Italia è inconcepibile. Ma l’Italia sinora ha vissuto la crisi di questi anni nell’attesa che l’iniziativa privata e quindi il mercato colmasse le lacune strutturali della sua economia. È stato così solo in parte e cioè per quelle imprese che hanno migliorato la produttività, creato plusvalore e si sono affermate sui mercati esteri. Sono piccole e medie imprese, le cosiddette multinazionali tascabili, il cui peso è determinante ai fini di indirizzo dell’economia ma non sufficiente per far ripartire la crescita in termini sostenuti e continui. Abbiamo assistito in questi anni all’invasione del mercato nazionale da parte di soggetti stranieri che si comportavano in Italia come in un grande supermercato di qualità. Si comperava il meglio a prezzi stracciati. Marchi prestigiosi hanno cambiato casacca, dai gioielli di Bulgari ai caseari di Parmalat. La cessione di Pioneer da Unicredit ad Amundi determina di fatto il controllo d’Oltralpe di una buona fetta del risparmio degli italiani. Una condizione di evidente sudditanza che rende chiaro un dato: le acquisizioni francesi in Italia hanno peso strategico. Negli ultimi dieci anni secondo i dati Kpmg i transalpini hanno fatto proprie aziende per 52 miliardi contro 7,6 miliardi di acquisizioni italiane. Ora è evidente che vi è stata una grande ritirata del capitale italiano da Pirelli passata ai cinesi sino a Italcementi ceduta a i tedeschi.

A questa indubbia debolezza del capitalismo nazionale si è aggiunto un approccio da ultimi arrivati sulla scena del libero mercato. Siccome dobbiamo essere liberisti lo Stato deve ritirarsi anche lui, questa la parola d’ordine. Il risultato è stato che le grandi imprese, Telecom su tutte, sono diventate campo di scorreria per gli speculatori privati. Questa purezza dottrinaria ci ha portato a demonizzare l’azienda pubblica quando invece i fatti dicono che determinante è la gestione. Si guardino le Ferrovie dello Stato dopo la cura Moretti, l’Enel, l’Eni e anche Leonardo. Le uniche multinazionali di rilievo rimaste in Italia sono a presenza pubblica. C’è poi Alitalia che è un dichiarato fallimento. Ma la lezione è una sola: quando la politica resta fuori dalla gestione allora anche le imprese pubbliche possono essere competitive.

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