L’Italia ora si ricompatta
e Draghi detta la linea

L’invasione russa dell’Ucraina ha ottenuto l’effetto di compattare l’Unione europea e di restituire ruolo alla Nato. Ma ha avuto anche altre conseguenze politiche: per esempio ha ammutolito i «partiti» filo-russi trasversali presenti nei vari Paesi europei. Anche in Italia, come tutti sanno, c’è stato a lungo un «partito di Putin»: adesso è costretto a tacere o a fare imbarazzanti contorsionismi. Lo si vede perfettamente in questi giorni di discussione sulle sanzioni e sulla fornitura di armi all’Ucraina.

La mozione parlamentare relativa alle nostre iniziative è passata quasi all’unanimità: sono rimasti fuori sono alcuni «sbandati». Anche Fratelli d’Italia ha votato con la maggioranza. Reduce dal suo viaggio di pubbliche relazioni negli Stati Uniti, Giorgia Meloni non ha avuto esitazioni nello schierarsi contro Putin e a favore di Zelensky (del resto così ha fatto anche il suo amico ungherese Viktor Orban). Molto più complicata la posizione di Matteo Salvini: il suo partito ha siglato anni fa un patto scritto di collaborazione con il partito di Putin, lui più volte si è dichiarato ammiratore del presidente russo (sui social molto crudelmente c’è chi rimette in circolo sue vecchie dichiarazioni sulla Piazza Rossa con tanto di t-shirt acconcia) e anzi ha avuto dei collaboratori coinvolti in inchieste giudiziarie proprio per presunti spericolati rapporti con uomini d’affari legati al Cremlino.

È per questo che per prima cosa Salvini ha dovuto convincersi a criticare l’invasione, poi a sostenere le sanzioni, infine a decidere di mandare le armi agli ucraini dopo una giravolta pacifista («Armi letali? Mai in mio nome»): infine ha votato la risoluzione come tutti gli altri. I suoi avversari hanno notato perfidamente che nel suo intervento parlamentare non ha mai pronunciato le parole «Putin» o «Russia». E sia.

Meno a disagio si è ritrovato Luigi Di Maio, un altro che si è fatto più volte fotografare sorridente accanto a Putin ma che ora, calato perfettamente nella divisa di diplomatico e di ministro degli Esteri, non esita a definire «un animale» l’invasore dell’Ucraina. A difendere i vecchi amori e ad attaccare la Nato e l’America tra i grillini rimangono solo Alessandro Di Battista e un tale che presiede la Commissione esteri della Camera e che risulta tra i pochi a non aver firmato la risoluzione (Di Maio ne vorrebbe le dimissioni). Quanto a Conte, non sono pochi quelli che gli rinfacciano di aver consentito ai russi di aver fatto entrare dei misteriosi camion militari in Italia ai tempi del primo lockdown e di averli fatti scorrazzare «per ragioni umanitarie» (quali?) per il Nord Italia. Ora al Copasir, il comitato che vigila sui servizi segreti, i capi della nostra intelligence vanno a dire che quello era un atto della cosiddetta «guerra cibernetica».

Come si capisce, il filo-putinismo era maggioritario nel governo Conte 1 a trazione leghista-grillina. Ora però l’aria è completamente cambiata, di fronte ai massacri nessuno o quasi osa più contestare la linea ufficiale del governo italiano che Draghi ha esposto con molta severità l’altro giorno al Senato.

Il premier ha avvertito tutti che il momento è davvero grave, che non è proprio il caso di risollevare vecchie questioni, che non bisogna perdere tempo a polemizzare e che se l’Italia non è in guerra, di fatto adotta misure da economia di guerra, a cominciare dal razionamento del gas. Bisogna stare uniti e dalla parte giusta ha detto il presidente del Consiglio: dalla parte dell’Europa, della Nato e dell’America, insomma dalla parte delle democrazie. Nell’aula di Palazzo Madama nessuno ha fiatato.

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